Cannes 2

TITOLO: Festival di Cannes 2006:
Un Certain Regard.

Data: 19/6/2006

URL: http://www.festival-cannes.fr/

prima parte

terza parte

Un Certain Regard è la sezione più importante del programma del Festival, subito dopo quella competitiva. E’ in questo programma che sono state trovate opere di grande interesse, spesso in numero maggiore di quante erano ospitate dalla competizione. Quest’anno la crisi qualitativa complessiva che attraversa il mondo del cinema, si è fatta sentire anche in questo cartellone in cui sono stati davvero pochi i titoli di rilievo.

Il cinema australiano ha avuto un posto di rilievo, Suburban Mayhem (Mutilazione suburbana) di Paul Goldman è un film che ricalca alcuni stereotipi cari a questa cinematografia, come le ragazze grassocce, disponibili, spregiudicate e crudeli. Tale è Katrina che, tra un rapporto e l’altro (i maschi la definiscono: la migliore succhiatrice del circondario), qualche furto, un bel po’ di cocaina sniffata e una bimba di pochi mesi avuta, molto probabilmente, dal fratello, trova modo di spingere un paio d’amanti ad uccidere il padre, ai suoi occhi colpevole di rimproverarla perché non sa trovarsi un lavoro e ad aver cura della figlia. La morte del genitore le servirà per vendere la casa di famiglia e procurarsi i soldi necessari alla difesa del fratello, condannato all’ergastolo per rapina e omicidio. Il film è costruito come un’inchiesta televisiva, con i vari personaggi, fra cui la stessa protagonista, che raccontano il loro punto di vista. La fine sarà favorevole alla donna, scagionata da ogni colpa, mentre uno dei suoi amanti finirà dietro le sbarre. Il film non è nuovo, ma ben costruito anche se ripete situazioni e discorsi già ascoltati molte altre volte.

Il Premio Speciale della giuria di questa sezione è andato a Ten Canoes (Dieci canoe, che in Italia è uscito con il titolo 10 canoe, 150 lance, 10 canoe, 3 donne…problemi) di Rolf de Heer, un testo che conferma la versatilità, se preferite l’incostanza, di un autore passato dall’horror ironico (Bad Boy Bubby, 1993), al prodotto intimistico su una bimba che ha deciso di non parlare (The Quiet Room - La stanza di Cloe - 1996), al film psicologico su un’handicappata che s’innamora di un bel ragazzo normodotato (Dance Me to My Song – Balla la mia canzone -1998) alla riduzione per lo schermo di un famoso racconto di Luis Sepúlveda (The Old Man Who Read Love Stories - Il vecchio che leggeva romanzi d'amore - 2001). Questa la volta imbocca la strada del racconto che sta a mezzo fra il documentario etnografico e la storia morale. Un gruppo d’aborigeni sta facendo la raccolta delle uova d’anatra e costruendo piroghe, quando un anziano si rivolge ad un giovane, che sospetta innamorato di una delle sue mogli, raccontandogli una vecchia leggenda su una donna troppo gelosa che scompare dalla tribù causando scontri e risentimenti fra i vari membri, uno dei quali muore in un duello rituale. Il film non è originale quanto l’autore vorrebbe e la storia che racconta fa l’occhiolino ad un certo cinema primitivo, senza possederne la genuinità e la forza primitiva. Le parti etnografiche appaiono poco originali e la favola rasenta il moralistico – banale. Una prova in più a favore di quanti che considerano questo regista più un artista ondivago che uno realmente versatile.

Two Thirty 7 (Le due e 37) opera d’esordio del ventiduenne Murali K. Thalluri, è una versione, in salsa locale, di Elephant (2003) di Gas Van Saint. Anche in questo caso c’è una morte in un liceo, vista con gli occhi di sei studenti e con salti temporali utili ad agganciare una visione all’altra. Al centro il suicidio di una ragazza, il titolo cita l’ora della sua fine, che si scopre incinta e si uccide non sopportando la vergogna, infatti, anche se la cosa non è chiara, il padre del nascituro dovrebbe essere il padre o il fratello. Gran tecnica e altrettanta professionalità, poco di nuovo. Il cinema asiatico ha sempre occupato una posizione di rilievo in questa sezione e così è stato anche quest’anno, seppur con una forza minore dovuta alle difficoltà e ai cambiamenti di rotta d’alcune cinematografie come quelle iraniana e cinese. La prima deve vedersela con la repressione di un governo particolarmente bigotto, la seconda paga un prezzo pesante alla nuova vocazione ai film spettacolari scelta da funzionari e produttori.

Il Gran Premio della sezione è stato attribuito a Luxury Car (Auto di lusso) del cinese Wang Chao, uno dei foschi ritratti sulla modernizzazione di quel grande paese. Questa volta è di scena un padre, mandato ad insegnare in campagna all’epoca della rivoluzione culturale (1965 - 67) e rimasto al suo posto anche quando la figlia e il figlio sono emigrati in una grande città, attratti dai guadagni e dalle luci dalla modernizzazione. Poiché il maschio non ha più fatto sapere nulla da molto tempo e la madre sta morendo, il padre viene a Shanghai per cercarlo. Ospite della figlia, scopre che vive prostituendosi in un locale di karaoké e servendo, in tutti i sensi, il padrone un ex – criminale. Aiutato da un vecchio poliziotto, anch’egli alla vigilia della pensione, finisce in un giro d’uccisioni e pestaggi sino a scoprire, una volta ritornato a casa, che il figlio è morto da due anni coinvolto nel furto di un’auto di lusso. Triste conclusione con il funerale, qualche tempo dopo, dell’anziano insegnante. E’ un’opere importante quale testimonianza di tempi sociali turbolenti, ma aggiunge poco a quanto già conosciamo in fatto di stile e nuovi linguaggi cinematografici.

Con Yongseobadji mothan ja (L’imperdonabile), opera prima del coreano Yoon Jong-Bin, passiamo ad un’altra cinematografia un tempo molto forte, anche se ora abbastanza ansimante. Il film affronta un tema caro al cinema di questo paese: le vessazioni e l’autoritarismo che regnano nelle forze armate che, è bene non dimenticarlo, furono protagoniste di un lungo periodo di feroce dittatura nei quindi anni che vanno dal 1972 al 1988. Lo scenario è quello dei ricordi di due amici che hanno fatto una parte del servizio militare assieme. Hanno assistito a suicidi e a punizioni corporali d’ogni tipo. Chi, con il grado di sergente, ha tentato di comportarsi in un modo appena più umano, si porta addosso, tuttavia, un tale senso di colpa che finirà con l’uccidersi. Il film è girato con molta, troppo, semplicità e bada più alla denuncia dei soprusi che alla ricerca di un preciso linguaggio espressivo. Come si suol dire: un testo sicuramente democratico, ma vecchiotto.

Fra le molte cose portate alla luce dal tsunami che ha colpito, il 26 dicembre 2004, l’Indonesia c’è anche lo stato endemico di guerra civile che segna la provincia d’Aceh, ove dal 1976 si scontrano l’esercito nazionale e il movimento marxista Aceh Libero (GAM). Serambi (letteralmente: la veranda di una nuova casa) di Garin Nugroho, Tonny Trimarsanto, Viva Westi, Pianto Luseno è un documentario narrativo che indaga sia le conseguenze del cataclisma sia lo stato della tregua stabilita fra le forze governative e la guerriglia per permettere l’arrivo dei soccorsi e il ristabilimento della vita normale. Quattro registi si sono assunti la responsabilità di fornire un quadro drammatico delle contraddizioni che l’apparente pace ha solo nascosto, ma non risolto. Anche questo è un testo più importante come documento sociale che come opere cinematografica in senso stretto.

Cambiamo ancora paese e veniamo a Gwaï Wik (Riciclo) dei giapponesi Danny & Oxide Pang, un’opera che strizza l’occhio ai racconti di fantasmi, un genere, in cinema come nei fumetti e nei libri, di gran successo da quelle parti. Una giovane scrittrice ha deciso di scrivere un libro di questo tipo e la cosa scatena un’orda di zombi, cadaveri decomposti, fantasmi e spiriti malvagi. E’ una di quelle produzioni film commerciali che una selezione attenta dovrebbe tenere lontani da un Festival che si rispetti. Invece…

Il cinema magrebino ha spesso utilizzato supporti produttivi francesi. Lo fa anche Bled Number One (Il primo paese) del francese d’origine algerina Rabah Ameur-Zaïmeche, una di quelle opere generose e militanti che tanto appassionano i registi del terzo mondo. Qui sono sul tappeto due argomenti ugualmente drammatici: il conflitto fra estremisti islamici e credenti moderati e lo scontro fra modernità e tradizioni. A farne le spese sono due emigrati che ritornano al piccolo villaggio algerino da cui sono partiti. Louisa arriva con il figlioletto, fuggendo da un marito maschilista e violento. Le sue abitudini di vivere modernamente e il rifiuto di sottomettersi al padrone di casa scandalizzano non poco madre e fratello che finisce col picchiarla a sangue. Kamel, appena uscito da una prigione francese, torna a casa per forza e deve confrontarsi con situazioni laceranti. Il film ha un andamento lento, come spesso capita in questi casi, e una narrazione semplice, con qualche schematismo di troppo. Ancora una volta, un’opera più importante politicamente che narrativamente originale.

Le cinematografie dei paesi ex – socialisti hanno spesso fornito materia di grande interesse ai selezionatori dei grandi festival, cosi è accaduto, seppure in misura minore rispetto agli anni precedenti, anche per il Certain Regard di quest’anno. Taxidermia è il secondo lungometraggio dell’ungherese György Pálfi, un regista che ha già sorpreso, nel 2002, con Hukkle, un film che racconta, senza dialoghi, ma solo con i suoni della natura, alcuni omicidi accaduti in un piccolo villaggio. La sua nuova opera è divisa in tre parti, abbonda d’immagini che richiedono stomaco forte e funziona come una sorta di discorso metaforico sulla storia del paese dal secondo dopoguerra ad oggi. Il primo episodio ha per sfondo una piccola guarnigione dove un attendente scheletrico e affamato di cibo quanto di sesso, è tiranneggiato dal tenente che deve servire. Il poveraccio sogna di fare all’amore con la grassa moglie dell’ufficiale, ma, in realtà, si congiunge con i pezzi di un maiale appena macellato. Il graduato lo scopre e lo ammazza. Il secondo episodio, ambientato negli anni del socialismo reale, ha un taglio opposto e racconta campionato in cui i concorrenti si sfidano a chi mangia di più, salvo vomitare quanto ingurgitato per essere pronti ad una nuova tenzone. L’ultima storia, ambientata ai giorni nostri, ha al centro un tassidermista, figlio di un campione delle gare mangerecce, che assiste il padre dispotico, immobilizzato su una poltrona. Litiga con lui e dimentica di chiudere la porta della gabbia in cui sono rinchiusi alcuni gatti particolarmente feroci che sbranano il vecchio. Vittima del senso di colpa si autoimbalsama e si fa decapitare da una macchina di sua invenzione. I suoi resti, abilmente sfruttati da un mercante, diventano un’opera d’arte esposta in una galleria che propaganda le nuove tendenze. Il film copre un arco che va dalla carestia alla falsa abbondanza, alla mercificazione totale del corpo. E’ violento nelle immagini, perfetto nella costruzione e nel racconto.

Djamshed Usmanov è originario del Tajikistan e si è già segnalato per un paio di titoli tutt’altro che banali: Fararishtay kifti rost (L’angelo della spalla destra, 2002) e Parvaz-e zanbur (Il volo dell’ape, 1998). A Cannes ha presentato Bihisht Faqat Baroi Murdagon (Per andare in cielo bisogna morire), in cui ritroviamo vari temi cari sia a quest’autore, sia ad un filone importante del cinema dei paesi ex – sovietici. Il primo riguarda la difficoltà d’amare e di costruire relazioni sentimentali e familiari armoniche. In questo caso è il giovane Kamal, fresco sposo, che non riesce a adempiere ai doveri coniugali e, un po’ per vergogna un po’ per disperazione, fugge in una città vicina. Qui, e siamo all’argomento caro ad un consistente filone del cinema di quest’area, per vivere deve diventare un delinquente ed andare a rubare con un complice. Nel corso dell’intrusione nella villa di un neoricco il suo compare uccide il padrone di casa e ne violenta la moglie. Il ragazzo, inorridito, spara allo stupratore. Il trauma risveglia la sua sessualità e lo fa sentire uomo a tutti gli effetti. C’è in questo parallelo la dolorosa presa d’atto che l’eredità del regime realsocialista ha lasciato un vuoto e un’impotenza morale che altro non è se non l’anelito a salvarsi da soli contro tutto e tutti.

Anche Z odzysku (Il ricuperatore) del polacco Slawomir Fabicki batte la strada dei giovani traviati dalla delinquenza che domina queste società. Qui un pugile promettente deve mettersi al servizio di un usuraio per far ottenere alla sua compagna ucraina i documenti necessari a regolarizzarne la posizione. Quando si pente delle violenze che lo obbligano a commettere e ritorna alla sana vita di campagna, il capo lo fa massacrare. Il film è tanto simile ad altri da sembrare un rifacimento, per giunta con attori legnosi e storia prevedibile.

Cum mi-am petrecut sfarsitul lumii (Come ho festeggiato la fine del mondo) del rumeno Catalin Mitulescu mette in parallelo, nel 1989, la maturazione umana e sessuale di una giovane e la fine del regime di Nicolae Ceauşescu. In questo caso il fatto personale supera quello politico e il film si limita a registrare le pulsioni amorose e l’inquietudine di una quindicenne che vive poveramente nella periferia semiagricola di Bucarest. Il film è banale nella costruzione, prevedibile nella descrizione dei caratteri, nullo sul piano del ritratto storico, ambiguo nei confronti dell’immagine di quel crudele dittatore, qui ridotto ad oggetto di battute e pessime imitazioni.

977 del russo Nikolay Komeriki guarda con un occhio all’eredità di Andrei Tarkovskij e con l’altro alla fantascienza povera. Un giovane scienziato è chiamato a lavorare in un misterioso centro di ricerca dove scopre processi ed esperimenti a dir poco misteriosi. Il film ha una costruzione molto professionale, ma una sceneggiatura che abbonda in passaggi incomprensibili. Un bilancio del tutto insoddisfacente.

Rimaniamo sempre in area europea con Salvador dello spagnolo Manuel Herga, un’opera politicamente generosa, ma formalmente ambigua. Il film, che contiene molti richiami alle stille dei videoclip, racconta il martirio di un militante anarchico, giustiziato con il barbaro sistema della garrota il 2 marzo 1974, ultimo di una lunga serie di martiri del franchismo. Il film racconta il percorso politico e militare di questo giovane, ma senza approfondire le conseguenze delle sue scelte politiche e il conflitto aperto con il movimento di resistenza di matrice operaia. Non a caso le organizzazioni sindacali, seppur all’epoca costrette nella clandestinità, rifiutarono i denari provenienti dalle rapine della banda. Lo stesso clima dell’epoca appare più affidato ad elementi scenografici che indagato con un minimo di profondità politica e sociale. In sostanza un’occasione mancata.

Andiamo a nord con Uro del norvegese Stefan Faldbakken, un’opera professionalmente corretta, ma non straordinaria. Al centro della storia c’è un poliziotto, violento e indisciplinato, che s’innamora della figlia di un gangster, sino ad assumersi il parricidio commesso dalla ragazza. Il taglio è segnato da luci plumbee, prevalentemente notturne, e ci sono non poche svolte repentine, oltre a qualche illogicità di racconto.

Restiamo nella regione con You am I (Tu essere io) del lituano Kritijonas Vildžiūnas il quale racconta di un architetto che, stanco della vita moderna, va a vivere in una casa costruita sugli alberi in una foresta, un po’ come accade a Il barone rampante di Italo Calvino. La sua pace è presto turbata da un’allegra comitiva di giovani che festeggiano il compleanno di una ragazza statuaria. Ovvio che i propositi d’eremitaggio sono messi a dura prova e che si apre lo spiraglio per una scelta meno netta. Il film propone temi abbondantemente sfruttati, come l’insopportabilità della vita urbana e la bellezza della natura, non riscattati da una fotografia tanto bella da sembrare una serie di cartoline.

Il cinema francese ha sempre avuto un posto di riguardo nel programmi del Festival, anche in quelli di questa sezione. Quest’anno il film d’apertura è stato Paris, Je T’Aime, un’opera collettiva cui hanno preso parte ben 20 cineasti: Bruno Podalydes, Gurinder Chadha, Gus van Sant, Ethan Coen, Joel Coen, Walter Salles, Daniela Thomas, Christopher Doyle, Isabel Coixet, Suwa Nobuhiro, Sylvain Chomet, Alfonso Cuaron, Olivier Assayas, Oliver Schmitz, Richard Lagravenese, Vincenzo Natali, Wes Crafen, Tom Tykwer, Frédéric Auburtin, Gérard Depardieu, Alexander Payne. Come in tutti i casi di questo tipo, il livello muta da episodio ad episodio. Quelli che si collocano al vertice sono Le 19me arrondissement d’Oliver Schmitz e Le 1er arrondissement d’Ethan e Joel Coen. Nel primo una paramedica è chiamata ad assistere un nero che sta morendo in strada. All’inizio sembra uno dei tanti casi di droga, ma come la storia si sviluppa, scopriamo che il poveretto è stato accoltellato da una banda di teppisti che gli hanno rubato la chitarra con cui si manteneva suonando per le strade. Non solo, questa era l’ultima tappa di una vita difficile e il suo sogno era ritrovare la donna che aveva intravisto un giorno, proprio quella che ora gli sta prestando le ultime, inutili cure. Il breve pezzo, come gli altri dura circa 6 minuti, ha un forte contenuto sociale e sentimentale, è girato con secco realismo e commuove nel profondo. Ethan e Joel Coen, invece, vanno sul sicuro muovendosi sul terreno violento, ironico e surreale che contraddistingue il loro percorso artistico. In questo caso sono di scena un turista americano, che non parla francese, e una focosa coppia d’innamorati nello scenario di una stazione della metropolitana. Lui è su un binario, la coppia su quello di fronte. Il turista li guarda intensamente suscitando l’ira dell’uomo che lo riempie di botte. Il poveretto non capisce nulla di quanto accade e, per un certo tempo, pensa che il teppistello gli stia rivolgendo parole d’amicizia. Nel complesso i vari episodi si muovono su un livello più che dignitoso con una maggioranza di brani di buon livello.

La Tourneuse de Pages (La girapagine) di Denis Dercourt è il classico film di qualità francese: buona sceneggiatura, personaggi costruiti con precisione, storia apparentemente originale. Tale è quella che qui si racconta: una bambina è disturbata da una cacciatrice d’autografi, mentre sta eseguendo un pezzo per l’ammissione al conservatorio. Fallisce la prova e decide di smetterla con il piano, ma cova un vero e proprio rancore verso questi importuni. L’occasione per vendicarsi arriva, quando è assunta da una famosa pianista con l’incarico di girarle le pagine degli spartiti. La fa innamorare, rivelandone la nascosta omosessualità, poi fa in modo che il ricco marito della donna scopra i sentimenti della moglie. Una storia psicologicamente raffinata, ma che aggiunge poco alle molte analisi cinematografiche già viste sulla complessità delle relazioni amorose ed interpersonali.

Meutrieres (Assassine) di Patrick Granperret è una brutta copia del vecchio Les Valseuses (I santissimi, 1974) di Bertrand Blier. Anziché i due mascalzoni che animarono quel film, Gérard Depardieu e Patrick Dewaere, qui ci sono due ragazze: Hande Kodja e Celine Sallette. Anche loro si trovano a vagare per la provincia Francese senza un soldo e con la testa notevolmente balzana. Il finale, preannunciato dall’apertura, è debitamente tragico, con un omicidio, quasi involontario, e porte del carcere che si aprono per le due vagabonde. L’opera mette assieme una montagna di svolte prevedibili: aggressioni sessuali, uso del corpo per sopravvivere, furti, invasioni da case momentaneamente abbandonate e via elencando. Lo stile è di una banalità sconfortante e non sfiora neppure quella qualità francese a cui ci ha abituato il cinema d’oltralpe. Nonostante tutto questo, la giuria della sezione ha deciso di attribuirgli un premio.

La Californie di Jacques Fieschi è un melodrammone brutto e verboso con una signora che riesce a sperperare una grande fortuna mantenendo una piccola corte di parassiti. Perde l'amore della figlia e finisce ammazzata dall’amante serbo in un tripudio d’ovvietà.

Spostiamoci di continente per parlare de El violin (Il violino) del messicano Francisco Vargas, il cui interprete, Don Angel Cavia, ha vinto il premio per l’interpretazione maschile di questa sezione. Il film sembra una copia, in salsa latinoamericana, delle opere della scuola di Leningrado degli anni settanta con il bianco e nero virato, i riferimenti al cinema classico, la denuncia della violenza della guerra e quella dei torti subiti dagli umili. In questo caso le vittime sono i poveri contadini di una regione montagnosa del Mexico (il Chiapas?) che organizzano una guerriglia contro il governo che manda soldati crudelissimi dotati d’armi moderne. La storia ruota attorno ad un vecchio violinista, senza una mano, che entra nelle grazie di un comandante torturatore. Tuttavia, quando scopre che l’anziano aiuta i ribelli, mette da parte i modi urbani e lo uccide. E' un film nobile, ma stilisticamente non straordinario ed è pieno di riferimenti ad altri modi di fare cinema.

Hamaca Paraguaya (Amaca paraguaiana) di Paz Encina si muove sulla linea del cinema essenziale dell’argentino Lisandro Alonso, un cineasta che ama seguire i personaggi senza quasi ricorrere ai dialoghi e trasforma in poesia gesti del tutto quotidiani. In altre parole quest’autore segue la strada di quello splendore del vero di cui parlano i teorici del cinema di Roberto Rossellini. Il racconto è costruito su lunghissimi piani totali e racconta il dramma di una famiglia contadina il cui figlio è morto nella guerra del Chaco (1932-1935) fra Bolivia e Paraguay. Il film gioca le sue carte migliori sui momenti a-sincronici: differenza fra la monotona quotidianità che passa sullo schermo e la drammaticità dei racconti, scarto fra immagini e dialoghi, tenuti costantemente fuori della scena. Un altro conflitto mette in scena lo scontro fra la miseria che circonda la vita di questi poveracci e la sapiente composizione delle inquadrature che rimandano sia alla pittura informale (Piet Mondrian) sia a quella dei maestri dell’impressionismo. E' un film difficile, ma che restituisce un grande piacere estetico e politico allo spettatore che ha la pazienza di seguirne il discorso con attenzione.

Passiamo ora agli Stati Uniti per segnalare A Scanner Darkly (Uno scanner oscuro) di Richard Linkalter, classico poliziesco ambientato in un prossimo futuro con caccia al traffico di droga, poliziotti violenti e cose del genere. La sola novità consiste nel fatto che il film è stato girato con attori veri e poi trasferito, mezzo computer, in una sorta di disegno animato. Un po’ poco davvero.

Umberto Rossi