Cannes 1
Data: 19/6/2006 |
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Mercoledì 17 maggio – Primo Giorno. Il 59mo Festival Internazionale del Film di Cannes si è aperto con un film, Il codice da Vinci, tratto da un romanzo che ha venduto, sino ad ora, più di quaranta milioni di copie. Un testo di gran successo, dunque, il cui cammino è stato segnato da aspre polemiche con la gerarchia cattolica, alcune importanti personalità della quale hanno invitato i fedeli a boicottare il film. Tanto scalpore per la tesi, non originalissima, ma indubbiamente dirompente, che pone l’accento sulla femminilità del Cristo. In altre parole si sostiene che Gesù ha avuto una vita umana normale tanto, da essersi sposato con Maria Maddalena che gli avrebbe dato alcuni figli. La donna, poi, sarebbe stata da lui designata come vera fondatrice della Chiesa Cattolica. Una tesi basata su interpretazioni tratte dai vangeli apocrifi, testi vari di storia della cristianità e su molte opere d’arte, prime fra tutte quelle di Leonardo da Vinci. Il film, dal bilancio di oltre 120 cento milioni di dollari, è stato affidato alle mani di Ron Howard, un sapiente confezionatore d’opere superspettacolari (Cocoon, 1985; Apollo 13, 1995; A Beautifull Mind, 2001; Cinderella Man, 2005). Il risultato finale mostra tutti i quattrini spesi, ma non va oltre. La storia, già debole nel libro la cui struttura assomiglia più alla sceneggiatura di un film di serie B che non ad un grande romanzo, perde ancora in verosimiglianza al punto che, nella proiezione stampa, sono risuonate varie risate in momenti che la regia pensava dovessero risultare, al contrario, molto drammatici. L’opera non funziona neppure sul versante puramente poliziesco e avventuroso, quello legato alla ricerca dei documenti che proverebbero la primogenitura ecclesiale di Maria Maddalena, la cui salma, ci si dice alla fine, sarebbe sepolta sotto la punta della piramide rovesciata che marca l’ingresso al Museo del Luovre. La storia è scombinata, piena di colpi di scena telegrafati un miglio prima, con intere parti in cui la decifrazione è affidata a fiumi di discorsi, segno che le immagini latitano e che al regista non passa per la testa neppure la più labile idea di cinema. In altre parole la contaminazione fra cultura alta, d’impostazione europea, e superspettacolarità hollywoodiana ha prodotto un clamoroso fallimento espressivo. Davvero un brutto inizio per il Festival. Giovedì 18 maggio – Secondo Giorno. Il Festival è iniziato con un film cinese interessante, ma non al livello delle opere migliori che sono venute, negli ultimi tempi, da quel grande paese. Summer Palace (Palazzo d’estate) di Lou Ye segue la vita di un gruppo d’universitari da 1987 al 2001, pedinandone le storie personali sullo sfondo dei grandi eventi che segnano questo quinquennio, dal massacro della Piazza Tian An Men alla caduta del muro di Berlino, alla dissoluzione dell’URSS. Il dato più interessante è proprio nella rappresentazione, per la prima volta da parte di un regista cinese, della repressione della protesta studentesca effettuata da esercito e polizia sulla piazza della capitale, il 3 giugno 1989. Il filo conduttore è offerto dalle relazioni sentimentali fra i vari membri del gruppo, in particolare fra una ragazza libera e inquieta venuta dalla lontana provincia, ai confini con la Corea, e uno studente intellettuale politicamente impegnato. Il film ha un ritmo troppo lento e dispersivo per essere veramente riuscito, anche se presenta vari momenti di grande cinema. Uno di questi è la sequenza della ragazza che si getta dal tetto di un palazzo di Berlino, ove era emigrata alla ricerca di una felicità che le era negata in patria e che non ha trovato nella capitale tedesca. Per il resto più buone intenzioni che cinema realmente riuscito. Un dato importante è nella costanza con cui questo autore prosegue, dopo Suzhou he (Il fiume Sezhou, 2000) e Zi hudie (La farfalla porpora, 2003), l’analisi sui problemi e il malessere della generazione che è nata sotto le ultime tracce del maoismo, ne ha subito la lunga agonia e deve fare i conti con la nuova società del denaro. Una delusione ha accompagnato, anche, The wing that shaker the barley (Il vento che scuote l’orzo) di Ken Loach. Il famoso regista di film sociali si è rivolto alla storia irlandese d’inizio ‘900 per raccontare i soprusi di cui si sono macchiate le truppe inglesi, durante la repressione della lotta indipendentista, e la guerra civile, successiva al riconoscimento di sovranità da parte di Londra, fra nazionalisti, favorevoli al rispetto dell’accordo di pacificazione, e l’ala più rivoluzionaria che voleva proseguire la lotta sino alla costruzione di una nazione totalmente indipendente e socialista. Ovvio che il regista parteggi per questi ultimi, ma lo fa in modo politicamente grossolano ed espressivamente greve, dando spazio ad immagini orripilanti (le torture che i britannici infliggono ai patrioti) e usando un andamento melodrammatico che cerca di inumidire il ciglio dello spettatore, ma gli fa capire ben poco di quanto è storicamente accaduto. Se non ci fosse il forte rispetto per il lavoro passato di quest’autore, verrebbe da dire che si tratta di un’opera di pura propaganda. Molto più realisticamente Ken Loach si è lasciato trasportare dalla passione per lo stare a fianco ai vinti, visti come vittime di una congiura universale che vuole tutte le rivoluzioni tradite. Venerdì 19 maggio – Terzo Giorno. Sembra proprio che il cinema indipendente americano abbia preso la strada indicata dal documentarista Michael Moore nella denuncia delle magagne della politica e dell’orrore di cui si macchiano, in nome del Dio dollaro, le grandi compagnie. Lo ha fatto Richard Linkalter con Fast Food Nation (La nazione del fast food) in cui si raccontano varie storie che ruotano attorno alla scoperta che c’è dello sterco negli hamburger di una grande catena di fast food. Un funzionario è inviato ad indagare presso la ditta che fornisce la carne, mentre un gruppo d’immigrati clandestini messicani finiscono a lavorare proprio in quella fabbrica. Sono storie separate che conducono all’umiliazione degli immigrati e opportunismo del manager - inquisitore che, scoperte le poche cure igieniche in vigore della fabbrica, mette tutto a tacere ed è premiato con un avanzamento di carriera. Il film è molto duro sul piano della denuncia politica, ma debolissimo su quello dello stile e dell’originalità del modo di raccontare. Su questo versante sembra di assistere alla proiezione di un telefilm e neppure uno dei migliori. Volver (Tornare) di Pedro Almodóvar è un gran film. Il regista spagnolo continua il discorso sulle donne e la famiglia che ha avviato sin da Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre, 1999). Lo fa ricorrendo all’abituale costruzione melodrammatica per raccontare una vicenda ricca d’incesti, morti nascoste, falsi decessi, tradimenti, riscatti apparentemente impossibili. Una donna volitiva, che lavora in un’azienda di pulizia all’Aeroporto di Madrid, ha la possibilità di coronare il sogno della sua vita: gestire un ristorante. L’opportunità gliela offre la troupe di un film che cerca un posto ove andare a mangiare. Nelle stesse ore deve affrontare un dramma familiare – la figlia uccide il (presunto) padre che cercava di violentarla – e il dolore per la morte di un’anziana zia. Solo che la parente, che tutti pensavano vivesse sola, era accudita dalla madre della donna, che risultava morta in un incendio ove, invece, era deceduta l’amante del padre. Quest’ultimo, per non smentire la tradizione, aveva violentato e messo in incinta la figlia. Va da sé che, fra cadaveri nascosti in freezer, agnizioni di paternità, madri ritenute morte che ritornano, il film mette in scena un bel po’ di cose. Il discorso che più interessa è quello sull’inferno che si cela fra le pareti domestiche e gli orrori che nascosti dai rapporti di parentela. Uniche ad uscire forti e indistruttibili da questo groviglio di vipere sono proprio le donne, che sanno superare ogni ostacolo. Il film ha un bell’andamento, teso e misurato negli effetti. La stessa partitura melodrammatica serve come veicolo per un discorso ampio, ne sottolinea i momenti ironici ed esalta quelli drammatici. Lunedì 22 maggio – Quarto / Sesto Giorno. Il fine settimana ha portato, come di consueto una gran massa d’invitati, addetti ai lavori e curiosi. Sugli schermi sono passati sei titoli, ne diamo conto sommariamente. Meglio non prestare troppa attenzione a Red Road (Strada Rossa) opera prima dello scozzese Andrea Arnold. E’ una storia poliziesca, dai tratti più che prevedibili, che ha al centro una donna agente, addetta al controllo delle telecamere che sorvegliano la città. Scopre, per caso, che è stato messo in libertà il responsabile della morte accidentale di marito e figlia. Per vendicarsi ordisce una trappola, in cui il tipo cade come un allocco, per farlo accusare di stupro. All’ultimo si pente e lo fa liberare. Il lutto è stato elaborato con buona pace di tutti e la vita continua. Il film è diligente, ma quasi inesistente sul piano espressivo. Selon Charlie (Lo dice Charlie) di Nicole Garcia è uno di quei film francesi che più non si potrebbe. E’ un esempio di sceneggiatura professionale, attori di livello, storia moderatamente originale. In una cittadina sulle rive dell’Atlantico in inverno, nel corso di tre giorni, sette personaggi incrociano le loro storie. C’è il sindaco che ama una ragazza ben più giovane di lui e che deciderà di rischiare la carriera per rimanere con lei. C’è il professore di scienze del liceo, ex ricercatore artico, tentato di abbandonare tutto per ritornare all’antica passione. C’è lo studioso di successo che ritorna nella città natale per partecipare ad un importante congresso e che coglie l’occasione per tentare di convincere il professore di liceo, suo antico compagno, non solo di studi, a ritornare a lavorare con lui. C’è la moglie dell’insegnante che lo tradisce con un operaio inquieto, c’è il figlioletto di quest’ultimo sballottato fra difficoltà adolescenziali e odio – solidarietà verso il padre. C’è il ladruncolo da quattro soldi che, per rubare un televisore, rischia l’accusa d’omicidio. Dovrebbe essere uno spaccato di vita, ma la regista non riesce a rendere realmente indicativi i personaggi, preferendo affidarsi alla bravura degli attori e rinunciando ad approfondire il discorso. Una mezza delusione. L’opera più interessante è stata Iklimler (I climi) del regista turco Nuri Bilge Ceylan, un autore che, con solo quattro lungometraggi all’attivo: Uzak (Distante, 2002), Mayis sikintisi (Nubi di maggio, 1999), Kasaba (La cittadina, 1998), incarna una delle voci nuove del cinema mondiale. Questo suo ultimo lavoro è fedele allo stile antonioniano che predilige: lunghi piani - sequenza, poche parole, immagini perfette di un paesaggio freddamente indifferente alle turbe emozionali dei personaggi. La storia ha al centro la crisi sentimentale ed esistenziale di un professore d’arte e di una direttrice artistica televisiva. Vanno in vacanza al mare e lì esplode il conflitto, lei tenta di ucciderlo e suicidarsi, causando un incidente stradale, poi lo lascia. Passano i mesi e lui è sempre più solo e melanconico, neppure un ritorno di fiamma con un’ex – amante, per la verità più simile ad uno stupro che ad un atto d’amore, serve a lenire la malinconia e il dolore. La compagna, nel frattempo, ha accettato di seguire la lavorazione di una serie tv che si gira all’interno del paese, in zone gelide e innevate. Lui parte alla sua ricerca e, quando la trova, riesce a convincerla di essere cambiato e pronto a trattarla come un essere umano autonomo e non come una sua proprietà. Lei si lascia persuadere, ma bastano pochi gesti, prima del ritorno ad Istanbul del compagno, a farle capire che nulla è mutato e lui è sempre il maschilista, mentitore e soprafattore di sempre. Il film termina su un primissimo piano della donna, dal cui viso traspare l’incertezza sul da fare. Il film è una meraviglia per il modo in cui dissemina piccole tracce, ma pesanti come macigni, sul carattere dei due protagonisti. E’ l’opera femminista più importante e intelligente vista negli ultimi anni, una perorazione a favore dell’indipendenza delle donne che non dimentica, anzi evidenzia, il dolore, la melanconia, l’insicurezza psicologica degli uomini. Un film perfetto con una fotografia eccezionale – il regista viene da questa professione – e con un amore per la protagonista, compagna di vita del cineasta, che traspare da ogni inquadratura che gli è dedicata. Un’opera forte ed espressivamente straordinaria. Un critico, quando si trova davanti ad opere che lo sconcertano e che non capisce, ha il dovere di dirlo chiaramente ai lettori. A me è capitato di provare questa sensazione vedendo Southland Tales (Racconti della terra del sud) di Richard Kelly. Il dossier stampa parla di una Los Angeles del 2008, dopo che un attentato nucleare ha distrutto una parte degli Stati Uniti e un geniale inventore tedesco ha ideato una fonte inesauribile d’energia che sfrutta il movimento delle onde del mare. Peccato che il marchingegno determini anche un’alterazione dell’asse terrestre che ha effetti letali sulla mente degli uomini. Si scatena così un conflitto fra il potere autoritario e una pattuglia di resistenti che va dai neomarxisti alle porno star redente. Lo scontro termina con la distruzione dei cattivi e l’arrivo di un nuovo Gesù. Tutto questo è scritto, ma sullo schermo le cose appaiono talmente imbrogliate e piene di strizzate d’occhio alla realtà americana da risultare confuse, incomprensibili, insopportabilmente lunghe (2 ore e 40 di proiezione). E' una fatica enorme per uno spettatore cui si concedono solo battute oscure e messaggi pomposi. Con Laitakaupungin (Le luci del sobborgo) Aki Kaurismäki prosegue, con coerenza stilistica e testardaggine tematica, il discorso sull’ingiustizia e l’inaccettabilità della società capitalista, meglio di quella moderna senza aggettivi. Al centro del film c’è un personaggio solitario, silenzioso, destinato ad esser gabbato e deluso da tutti quelli che lo circondano. Koistinen fa con precisione il suo lavoro di guardiano notturno, sogna di mettere su un’azienda sua, ma è deriso ed emarginato dai colleghi. Un giorno incontra una donna che s’interessa a lui, ma lo fa solo perché complice di una banda che vuole svaligiare una gioielleria che sui sorveglia. Gli carpisce codici e chiavi permettendo ai complici di rubare. Il guardiano è accusato di essere il ladro e finisce in prigione. Qui s’incupisce ancor più, al punto di respingere gli approcci della padrona di un chiosco di panini, la sola che crede in lui. Quando esce dalla prigione, la banda continua a perseguitarlo, facendogli perdere il posto di lavapiatti che ha appena trovato e picchiandolo a sangue. Malconcio, sanguinante, senza lavoro sarà solo la proprietaria del chiosco a porgergli una mano che lui l’accetta. Il film è girato con il consueto stile freddo, le inquadrature precise, i personaggi ridotti a caratteri simbolici. E' un testo forte e rivoluzionario, ma che ha il difetto di presentare discorsi già fatti in Mies vailla menneisyyttä (L’uomo senza passato, 2002) e Kauas pilvet karkaavat (Nuvole in viaggio, 1996). Martedì 23 maggio – Settimo giorno. Bruno Dumont è uno di quegli autori che suscitano grand’avversione o amore senza limiti. I suoi film si rifanno, spesso, ad una lettura originalissima dei testi sacri, con un linguaggio che preferisce i tempi lenti, l’uso di paesaggi raffinatamente espressivi, l’impiego d’attori non professionali, l’uso di pochi dialoghi. Con Flanders (Fiandre) mette a confronto due scenari, speculari l’uno all’altro. Il primo è ambientato nella campagna delle Fiandre, con il lavoro duro, la povertà diffusa, la fatica della terra. Qui la giovane Barbe rompe il silenzio che la circonda usando il sesso per comunicare con gli altri. Un sesso meccanico, algido, percorso da un senso di morte. Si dà, senza problemi e apertamente, sia a Demester sia a Blondel, verso il quale finisce con il provare qualche cosa che assomiglia vagamente all’amore. I due ragazzi partono per il servizio militare, che li scaglia in una guerra lontana e ferocissima, nel corso della quale stuprano, uccidono civili e bambini e, a loro volta, sono uccisi, castrati, picchiati. Solo Demester ritornerà da quest’inferno e troverà un momento di pace fra le braccia di Barbe che supera, a sua volta e in questo modo, il dolore per la morte di Blondel. Il film è del genere: amami o odiami. Violento e idealistico, crudele nelle immagini e raffinato nella loro costruzione. E’ meno espressivo delle opere precedenti di quest’autore, in particolare de L’Humanité (L’umanità, 1999), ma rimane pur sempre un film importante che chiede uno sforzo per superare il primo senso di gelo, ma ripaga con osservazioni ed emozioni tutt’altro che banali. Babel del messicano Alejandro Gonzáles Inárritu racconta tre storie che s’intrecciano casualmente. La prima è quella di una turista americana, in gita in Marocco con il marito dopo aver lasciato i figli a casa, affidati alla fedele tata messicana. La donna è ferita gravemente da un colpo di fucile sparato, quasi per gioco, da un pastorello locale. La seconda coinvolge un giapponese, proprietario dell’arma, e la figlia sordomuta. La terza riguarda la domestica messicana che, dovendo partecipare al matrimonio del figlio, ha la bell’idea di portarsi dietro i due ragazzini che le sono stati affidati. La Babele del titolo è sintetizzata nel drammatico sviluppo di queste storie: la donna ferita sarà salvata a stento, per colpa delle ragioni diplomatiche che impediscono l’arrivo puntuale di un’eliambulanza. La messicana finisce coinvolta nella forzatura della frontiera, rischia di far morire i piccoli americani ed è espulsa dl paese. Il ricco giapponese, la cui moglie si è uccisa, deve fronteggiare i problemi della figlia che, credendosi disprezzata dai coetanei, non trova di meglio che usare il corpo come mezzo di comunicazione. Il film è ambizioso, ma approda a poco. Nella sostanza non va oltre alla riaffermazione del detto biblico secondo cui sono i figli a pagare i peccati dei padri (i figli hanno mal di pancia perché i genitori hanno mangiato frutti acerbi). E' un po’ poco per un’opera pesante (quasi due ore e mezzo di proiezione) ricca di divi (Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Carcia Bernal) e dall’impianto costoso. Come dire: la montagna ha partorito il topolino. Mercoledì 24 maggio – Ottavo giorno. La raison du plus faible (La ragione del più debole) dell’attore e regista belga Lucas Belvaux mette assieme il cinema criminale, sezione colpi sfortunati dall’esito tragico, e quella sul malessere degli operai in pensione o dei giovani disoccupati. Cinque di loro, fa cui un ex galeotto e un handicappato in carrozzella, organizzano una rapina all’ufficio di una ditta siderurgica in cui è depositato, per poche ore, un milione d’euro. Impreparati, pasticcioni, inesperti i cinque finiscono male: chi in prigione, chi ucciso dalla polizia. Il film è troppo lungo, ripetitivo e non sceglie una strada precisa. Non è un poliziesco e neppure un’opera sociale. E’ un ibrido a tratti fastidioso e sempre prevedibile. Marie Antoinette (Maria Antonietta) di Sofia Coppola era fra i film più attesi, perciò la delusione è stata particolarmente cocente. La regista promette, nelle primissime immagini, una visione dissacrante, ironica della vita dell’ultima regina di Francia prima della rivoluzione del 1789, rivoluzione che le costerà la testa assieme a quella di suo marito, Luigi XVI. Nella realtà l’opera si muove su un terreno pomposo, ripetitivo, noiosissimo in cui qualsiasi riflessione - non diciamo storica, ma neppure psicologica - lascia il passo al ricco scenario delle sale di Versailles. L'unico elemento in controtendenza è l’uso spregiudicato e non sempre efficace della musica rock. Inutile, poi, fare le pulci ai numerosi errori storici, come il gelo del pubblico, primo segno della rovina della regina, che non venne da una rappresentazione teatrale, ma dal verdetto d’assoluzione del processo dei diamanti, voluto dalla corte. Oppure mettere l’accento sulle differenze d’età fra personaggi reali e loro rappresentazione (Maria Antonietta aveva solo quindici anni quando andò sposa a Luigi XVI). Ciò che conta è il fallimento di un baraccone superspettacolare, privo di qualsiasi ironia e collocato in una dimensione totalmente fuori del tempo. Giovedì 25 maggio – Nono Giorno. Paolo Sorrentino, una delle voci più originali del nostro cinema, lavora attorno ad un tema fisso: la forza che l’amore sa dispiegare anche su individui cinici e abbietti. Tale è Geremia, il protagonista de L’amico di famiglia. Un relitto fisicamente sconciato, vecchio, sporco, avaro sino al parossismo e, per giunta, dedito ad un mestiere particolarmente odioso, quello dell’usuraio. Gli capita di essere travolto dalle fresche carni di una ragazza che sta per sposarsi e al cui padre ha prestano dei soldi. Con il fuoco addosso, dimentica l’atavica prudenza, vuole persino mandare in ospizio la madre paralitica e non meno laida di lui. L’errore maggiore lo fa quando decide di tentare il colpo grosso, puntare tutto ciò che ha accumulato in anni di nefandezze, un milione e duecentomila euro, su un prestito ad un industriale che gli promette la restituzione del doppio in due mesi. Solo che si tratta di una stangata organizzata da quello che gli è sempre stato vicino e che, ora, sfrutta questa sua debolezza sessuale per portargli via tutto. Ritornato povero, dopo aver rischiato di morire in una sorta di duello rusticano con uno a cui aveva rifiutato un prestito, si rimette al lavoro, riparte dall’inizio e rifiuta l’amore della giovane che, per una delle misteriose vie del destino, ora si è invaghita di lui. Il film è un racconto – ritratto senza preoccupazioni d’eccessiva verosimiglianza, di corrispondenza o rappresentazione di problemi sociali di un qualsiasi tipo. Questo avaro non è tanto un caso politico o criminale quando una vicenda clinica. E' un approccio che si realizza al meglio anche grazie la straordinaria verve interpretativa di Giacomo Rizzo, uno dei tanti gioielli, spesso dimenticati, di quell’inesauribile giacimento d’attori che è il teatro napoletano. Indigènes (Indigeni) del regista franco - algerino Rachid Bouchareb è un film dal taglio classico sulla seconda guerra mondiale. L'unica novità è la valorizzazione del contributo dato alla vittoria contro i tedeschi dal contingente magrebino, arruolato sotto le insegne dell’esercito francese. E’ noto che molti governi hanno usato i popoli emarginati come carne da cannone. In questo conflitto lo hanno fatto gli americani, con i soldati di colore, i sovietici, con i mongoli, i francesi con gli uomini reclutati in Algeria e Marocco. Sono stati proprio questi ultimi a dare un contributo fondamentale nella battaglia di Cassino, in Italia, e nei Vosgi, in Francia. Sono uomini che hanno sacrificato la vita e subito gravi ferite per poi essere messi da parte e ricacciati in una condizione di semischiavitù. Il film non va oltre i canoni del classico prodotto bellico, con tante sparatorie, eroismo e vigliaccheria, ufficiali menzogneri, sottoufficiali crudeli. Nulla di nuovo sotto il sole e, se in terra di Francia, quest’opera è destinata a resuscitare vecchie polemiche e a versare sale su ferite ancora aperte, è difficile che all’estero desti analogo interesse. Venerdì 26 maggio – Decimo Giorno. Juventude em Marcia (Avanti, giovinezza!) del portoghese Pedro Costa è uno di quei film estremi che richiedono dallo spettatore molta pazienza e disponibilità d’animo. Per oltre due ore e mezzo scorrono sullo schermo immagini quasi fisse di persone di parlano fra loro, spesso con lunghe sospensioni del discorso e affrontando argomenti apparentemente banali. In realtà è il ritratto del disadattamento sociale e del bilancio della vita degli emigrati a Lisbona dalla Guinea - Capo Verde. Questi poveracci hanno passato la vita facendo lavori faticosi e umili. Anche l’approdo dalle baracche alle case popolari, non lenisce le loro sofferenze. Il simbolo di questo disadattamento è nel vecchio Ventura che, abbandonato dalla moglie e trasferitosi nella nuova casa, si sente talmente solo e spaesato da trattare come figli tutti i giovani che incontra: drogati, disoccupati, mendicanti, ladri. Il film è molto singolare, non sempre comprensibile e decisamente scostante, quando meno ad un primo approccio. Come si notava in apertura, occorre molta pazienza da parte dello spettatore. Dopo sviluppa un suo fascino non banale. Quand J’Étais Chanteur (Quando ero un cantante) di Xavier Giannoli è soprattutto un film su un attore: Gérard Depardieu che lo riempie con il suo corpaccione e una recitazione insolitamente moderata. La storia è quella di un cantante di balere, con una certa fama in provincia, che s’innamora di una donna più giovane e con un passato, ma questo lui non lo sa, d’attrice porno. Il film è tutto nei duetti fra questi due amanti improbabili e nel tratteggio di un mondo provinciale e in là con gli anni che ruota attorno a sale da ballo più o meno moderne. Non c’è nulla di nuovo né sul piano della descrizione della decadenza di un artista, né su quello della riflessione sociologica; c’è solo un atto d’amore per i professionisti dello spettacolo che non conoscono mai le luci del successo. Non è poco. Sabato 27 - domenica 28 maggio – Undicesimo/dodicesimo giorno. La premiazione che ha chiuso la 59ma edizione del Festival di Cannes ha soddisfatto poco, per almeno due ragioni. Ha assegnato la Palma d’Oro a The wing that shaker the barley (Il vento che scuote l’orzo), uno dei film minori di Ken Loach. E’ un’ode agli estremisti irlandesi che, negli anni venti, non accettarono il compromesso con gli inglesi, da cui nacque la Repubblica d’Irlanda, nel nome della lotta per la costruzione di una patria socialista che si estendesse all’intera isola. E' un'opera di buona fattura, ma discutibile politicamente e povera d’autentica ispirazione. Qualche cosa capita anche a Flanders (Fiandre), opera che conferma lo stile di Bruno Dumont, ma non aggiunge nulla alla sua filmografia se non uno sguardo particolarmente pessimistico sul destino dell’uomo sia in pace, sia in guerra. Il gran premio della giuria a Red Road (Strada Rossa), opera prima dello scozzese Andrea Arnold, rappresenta la decisione più strana fra quelle adottate dalla giuria, vista la prevedibilità e la pochezza espressiva del film. Il riconoscimento per la regia a Babel del messicano Alejandro Gonzáles Inárritu, sottolinea la professionalità di questo cineasta, ma lo fa scegliendo un’opera più furba che originale. Per ciò che riguarda Volver (Tornare) dello spagnolo Pedro Almodóvar, il vero sconfitto di quest’edizione, i due riconoscimenti che gli sono stati assegnati (premio alla sceneggiatura e alloro al complesso delle interpreti), suonano come un tentativo di rendere meno scandalosa la sua esclusione dai palmares più importanti. Il premio per l’interpretazione maschile, andato al complesso degli attori del film sui soldati magrebini (Indigènes del regista franco - algerino Rachid Bouchareb) che hanno partecipato alla seconda guerra mondiale, ha un suono nettamente politico e per nulla estetico. Il regista che ha più da recriminare, non avendo ricevuto nulla, è il turco Nuri Bilge Ceylan il cui Iklimler (I climi) era, a nostro parere, il migliore fra i molti titoli in concorso. Nelle ore precedenti la cerimonia di premiazione si era visto l’ultimo titolo in concorso: Crónica de una fuga (Cronaca di un’evasione) dell’argentino Israel Adrián Caetano, che ci riporta agli anni terribili della dittatura militare in Argentina (1976 – 1983) quando gli oppositori del regime o i semplici sospettati di esserlo, erano rapiti, torturati, uccisi senza alcuna possibilità di giudizio. In quel triste periodo avvenne anche la fuga di quattro desaparecidos dalla villa Casa Chiusa in cui erano detenuti da più di quattro mesi. Stilisticamente il film è un carcerario di tipo tradizionale con un pizzico, ma appena un pizzico, d’interesse per le condizioni politiche in cui è ambientato. Emozionante, ma vecchiotto. Umberto Rossi |