L'illusione comica
Resto: Pierre Corneille (1606 - 1684); versione italiana: Edoardo Sanguineti; regia: Marco Sciaccaluga; musica: Andrea Nicolini; scene e costumi: Valeria Manari; luci: Sandro Sussi; fonica: Claudio Torlai; interpreti: Eros Pagni, Sara Bertelà, Fabrizio Contri, Federico Vanni, Andrea Nicolini, Aldo Ottobrino, Antonio Zavatteri, Eva Cambiale, Andrea Nicolini. |
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Pierre Corneille aveva trent’anni, quando, nel 1636, diede alle scene L’illusione comica (L’illusion comique). L’accoglienza fu calorosa e l’opera ebbe varie edizioni prima di precipitare in un lungo oblio. Era un caso, interessante anche se stilisticamente non del tutto riuscito, di teatro nel teatro. È un testo che, nella sostanza, appartiene alla commedia e ha ben poco in comune con Il Cid (Le Cid), la mastodontica tragedia storica che, l’anno dopo, gli darà fama e successo. Al centro della storia il classico triangolo amoroso: lei ama lui (povero e sottoposto), lui finge di amarla, ma in fondo le preferisce una conturbante cameriera, il padre la vuole maritare ad un giovane di buona famiglia e la rifiuta ad un vecchio militare trombone e codardo. Apparente lieto fine, con appendice drammatica: dopo che i tre giovani sono riusciti a fuggire e hanno trovato rifugio e fortuna presso un altro monarca, lui la tradisce con la moglie del protettore e questi lo uccide. Superfinale con lo svelamento che si è trattato solo di una recita teatrale, con tanto d’elogio della funzione magica del palcoscenico. Marco Sciaccaluga ha utilizzato la traduzione in versi d’Edoardo Sanguineti per uno spettacolo sin troppo ricco, soprattutto dal punto di vista dei temi. Si apre con un panorama di rovine e un sottofondo di canti di muhezin in cui si aggirano militari armati sino ai denti. Il tutto fa pensare ad un discorso- metafora sulla guerra irakena. Si procede con alcune grottesche macchiette affidate all’arte interpretativa d’Eros Pagni che, nel trucco e negli abiti, cita apertamente Adolf Hitler e Benito Mussolini; tanto che compare persino un mappamondo che ricorda sia quello della sala in cui lavorava il Duce, sia l’altro, volante, con cui danza il Fuhrer ne Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940). Poi tutto sfuma in una classico del teatro seicentesco per trasformarsi, con un improvviso colpo di coda, in un pistolotto banale sulla magia del teatro. In conclusione un’operazione disomogenea, zeppa di lampi di genialità, ma scollegata nelle sue parti e che, alla fine, lascia un senso d’ammirata confusione. |
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