Il mercante di Venezia

Testo: William Shakespeare (1564 - 1616); traduzione: Ferdinando Bruni; regia: di Elio De Capitani; interpreti: Corinna Agustoni, Ferdinando Bruni, Cristina Crippa, Elio De Capitani, Massimo Giovara, Ida Marinelli, Giancarlo Previati, Luca Toracca; scene e costumi: Carlo Sala; luci: Nando Frigerio; musiche: Mario Arcari; suono: Renato Rinaldi.

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Il mercante di Venezia è, fra le opere di William Shakespeare, quella che presenta maggiori difficoltà per registi e attori che vogliano mettervi mano. La storia di Shylock, l’ebreo veneziano, che presta 3 mila ducati al mercante Antonio avendone in garanzia il diritto a prelevare una libbra della sua carne se non rimborserà il denaro, deve necessariamente fare i conti con il forte antisemitismo che la pervade. Molti si sono attaccati al famoso monologo in cui il finanziatore rivendica l’umanità dei giudei (Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione?) per sostenere che non d’antisemitismo si tratta, ma di un tentativo di rovesciare dall’intero quell’odioso sentimento. Meglio ha fatto, da questo punto di vista, Elio de Capitani, regista e attore di questa nuova versione del testo shakespeariano, ad accettare il fluente antisemitismo che inonda il testo limitandosi a supporre che si tratta di un omaggio al sentire dell’epoca, con lo scrittore si limita ad un’utilizzazione a fini drammaturgici. Va ricordato, lo fanno opportunamente le note di regia, che l’opera fu rappresentata nel 1593 nel pieno di un’ondata antisemita particolarmente virulenta legata all’aggressione del Conte di Essex al regno, ancora incerto, della giovane Elisabetta con il pretesto di un’inesistente congiura ordita dal medico di corte Roderigo Lopez ebreo sefardita convertito d’origine portoghese. Gli ebrei, fatto non trascurabile, erano stati cacciati dall’Inghilterra nel 1290, ben cento anni prima della Francia (1394) e duecento dalla Spagna (1492) della Cattolicissima Isabella di Castiglia. Questo è il punto di maggior forza di uno spettacolo, per altro verso sconcertante. Il regista accumula sul palcoscenico, forse in omaggio al lato volgar – popolaresco di tanto teatro elisabettiano, macchiette napoletane, buffoni dal volto pesantemente truccato, apparati di scena che rimandano sia al tetro nel teatro, sia al varietà e al vaudeville. Ne risulta un corposo impasto, quasi tre ore di rappresentazione, non sempre digeribile e spesso strascicato punteggiato di interessanti invenzioni annegate in troppa materia.

 
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