Galois

Testo: Luca Viganò; regia: Marco Sciaccaluga; musiche: Andrea Nicolini; luci: Sandro Sussi; interpreti: Massimo Mesciulam, Matteo Alfonso, Luca Giordana, Fabrizio Matteini, Flavio Parenti, Giulia Ragni, Pietro Tammaro.

URL: http://www.dm.unibo.it/socrates/teatro/galois.php

Evariste Galois non aveva ancora ventun’anni, quando morì, nel 1832, a seguito della ferita riportata in un duello di cui non sono certi né il motivo, né il nome dello sfidante. La sua vita era stata breve, ma tumultuosa. Vero e proprio genio matematico, aveva elaborato alcune scoperte, la prima a solo diciotto anni, che erano diventati le basi dell’algebra moderna e, in particolare, della teoria dei gruppi, ma che erano stati conosciute solo nel 1843 ad opera Joseph Liouville. Fu perseguitato dalla sfortuna e dagli uomini. Le prime sue dimostrazioni andarono perdute prima di essere studiate e divulgate, mentre la società accademica dell’epoca lo ripudiò, tanto che fu respinto per ben due volte al concorso d’ammissione alla prestigiosa Ecole Polytechnique e fu espulso dalla più modesta Ecole préparatoire (oggi Ecole Normale Supérieure) in cui insegnava. Sono gli anni della Restaurazione postnapolenica che segnò il ritorni dei Borboni sul trono di Francia. Evariste Galois fu rivoluzionario radicale, si batté contro la monarchia e subì la prigione. Questa vasta materia ha affascinato almeno due registi cinematografici: Evariste Galois (1965) d’Alexandre Astruc e Non ho tempo (1973) d’Ansano Giannarelli. Ecco ora arrivare un bel testo teatrale di Luca Viganò che va in scena per la regia di Marco Sciaccaluga. Su un'unica scena, dominata da una grande lavagna su sui sono scritte due formule matematiche e gruppi di numeri dall’1 al 30, che vengono progressivamente cancellati con lo scorrere delle scene che compongono il testo, si muovono sette attori che raccontano gli ultimi anni di vita del matematico e danno eco alle dimostrazioni di piazza innescate dal susseguirsi dei monarchi, prima Carlo Decimo, poi Filippo d’Orlean. La messa in scena ha alcune felici citazioni cinematografiche (Il dottor Stranamore, 1964 di Stanley Kubrick), un intelligente uso di moduli brechtiani (l’annuncio e la cancellazione dei numeri delle scene, la descrizione dei gesti nei momenti più drammatici e il rifiuto dell’uso di molti oggetti di scena), un andamento lineare e forte ad un tempo. Uno spettacolo davvero di prim’ordine.

 
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