Non bussare alla mia porta (Don’t Come Knocking)

Regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Sam Shepard; interpreti: Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Gabriel Mann, Sarah Polley, Fairuza Balk, Eva Marie Saint, Mike Butters, Emy Coligado; produttori: Karsten Brünig, In-Ah Lee, Carsten H.W. Lorenz, Stephan Mallmann, Peter Schwartzkopff, Jeremy Thomas; musica: T-Bone Burnett; fotografia: Franz Lustig; montaggio: Peter Przygodda, Oli Weiss; ricerca attori: Heidi Levitt; scenografo: Nathan Amondson; direzione artistica: William Budge, Nicole Lobart; arredatore: David Storm; costumi: Caroline Eselin, Jennifer Day Young;società produttrici: Reverse Angle International GmbH, Reverse Angle International; nazionalità: Germania / USA; anno di produzione: 2005; durata: 122 min.
URL: http://www.dontcomeknocking.com/
TRAILER

Non bussare alla mia porta di Wim Wenders si muove sulla linea degli ultimi film di questo autore. Lo fa nel senso che firma un’opera professionalmente dignitosa e abbastanza ben costruita, ma priva di qualsiasi afflato d’autentica originalità e, per giunta, guastata dall’interpretazione del romanziere e co – soggettista Sam Shepard. La storia, troppo allungata, è quella di un attore sulla via del declino che fugge dal set dell’western in cui è impegnato a Moab, una sorta di copia della celeberrima Monument Valley. Si lascia tutto alle spalle e si rifugia nella casa di sua madre, che non vede da trent’anni. Qui scopre che una ventina d’anni prima una donna, con cui aveva avuto una relazione, lo aveva cercato per fargli sapere che stava per dare alla luce suo figlio. Partendo da poche tracce rintraccia, la donna, ormai signora di mezza età, e scopre che di figli ne ha non uno ma due. Mentre accade tutto questo, un agente della compagnia d’assicurazioni, che ha garantito il buon fine del film, gli dà la caccia, lo ritrova e lo riporta sul set. Tutto continua come se nulla fosse accaduto. L’asse dell’opera dovrebbe essere quello delle origini perdute, dei rapporti di parentela allentati, del mondo diventato una disumana macchina da soldi. Dovrebbe essere, ma il risultato stilistico è modesto, la storia arranca con troppe digressioni, l’interprete principale è troppo impegnato a riflettere sul proprio ombellico per curarsi di fare gioco di squadra per la riuscita del film.

 
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