La tigre e la neve
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La tigre e la neve, ultima fatica di Roberto Benigni è costruito con ingredienti di gran qualità: una bella storia, un’ottima sceneggiatura, una fotografia efficace, bravi interpreti, escludendo Nicoletta Braschi qui forse ancor più catatonica del solito. Sono materiali di prim’ordine, messi a disposizione di una regia tutt’altro che straordinaria. E’ questa la contraddizione tipica del cinema del gran toscano: inventare, mettere assieme parti di grande efficacia senza riuscire ad inserirle in una direzione che le controlli e utilizzi in modo pieno. A pensarci bene questo è il difetto anche di film stilisticamente più omogenei come Il piccolo diavolo o La vita è bella. Questa volta la storia è tutta cadenzata sulla forza della poesia e il potere dei sentimenti. Attilio è un poeta che insegna all’università e ha avuto una storia con una collega. La moglie l’ha scoperto e lo ha lasciato. Siamo nel 2003 e sta per scoppiare la seconda guerra irakena. L’ex moglie va a Bagdad per completare la biografia di un grande poeta, ritornato in patria dopo un lungo soggiorno a Parigi. Qui è vittima di un incidente e finisce in coma. La guerra è scoppiata e la città è in pieno caos, gli ospedali sono diventati veri e propri bivacchi in cui manca tutto. Attilio – omaggio al padre dei fratelli Bertolucci cui Benigni deve molto – riesce ad arrivare avventurosamente nella capitale persiana e a salvare l’amata con astuzia e tenacia. I dialoghi del film sono infarciti di citazioni poetiche, non dichiarate e misurate al punto da renderli sublimi. L’amore per la poesia esplode nella sequenza del posto di blocco, quando Vittorio, carico di medicinali, è scambiato per un terrorista e lasciato andare solo quando si dichiara poeta. Nel film non mancano i momenti davvero emozionanti, come il Padre Nostro rivolto ad Allah o il suicidio del poeta irakeno, uno straordinario Jean Reno, ma il tessuto connettivo fra le sequenze mostra molte debolezze. Un bel film che poteva essere meraviglioso. |
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Valutazione: 1 2 3 4 5 |