Festival di Setubal 2006

TITOLO: Dedicato alla Norvegia

data 19/06/2006

URL: http://www.festroia.pt/

Il Festival del cinema di Setubal ha subito il dolore della scomparsa, a pochi giorni dalla chiusura dell’edizione di quest’anno, del suo presidente e fondatore: lo scrittore Mario Ventura.

La manifestazione portoghese è dedicata ai paesi la cui produzione cinematografica non supera la trentina di titoli a stagione. Questa scelta, che ha segnato l’iniziativa dall’inizio, si è tradotta, nel tempo, in una forte attenzione verso alcune nazionalità solitamente trascurate dai grandi circuiti festivalieri, in particolare, i paesi del nord Europa.

Quest’anno la retrospettiva nazionale era dedicata alla Norvegia, con un ampio programma che comprendeva la versione restaurata di C’era un uomo (Terje Vigen, 1917) che lo svedese Victor Sjöström ha tratto dall’omonimo poema scritto nel 1861 da Henrik Ibsen (1828 – 1906). A seguire sette titoli, il più interessante dei quali è stato En Folkefiende (Un nemico del popolo, 2005) che Erik Skjoldbjærg ha desunto da un altro testo, scritto nel 1882, del grande drammaturgo norvegese. Questo dramma ha avuto vari adattamenti cinematografici e televisivi, il più famoso dei quali è quello curato, nel 1950, da Arthur Miller in piena Caccia alle streghe ed utilizzato da Paul Bogart nel 1966, da Jack O'Brien nel 1990 e, soprattutto, da George Schaefer nel 1978, per la versione interpretata da Steve McQueen. La lettura che ne propone ora il regista norvegese, ha un taglio nettamente politico che mette parzialmente da parte le forti venature ecologiste che erano al centro, ad esempio, della lettura proposta da Marco Sciaccaluga per la versione teatrale, interprete Gabriele Lavia, prodotta dal Teatro di Genova nel 2002. E’ un approccio lineare e fortemente antipolitico, nel senso letterale del termine, in cui il famoso monologo del dottor Thomas Stockmann sulla stupidità della maggioranza, finisce quasi per rinvigorire le polemiche sul presunto elitarismo del drammaturgo nordico. In questa versione, ambientata ai giorni nostri, a lottare contro gli interessi di potenti, sindacati e miopi cittadini è un conduttore televisivo, specializzato in scoop sui prodotti alimentari pericolosi, che scopre la possibile tossicità dell’acqua minerale il cui imbottigliamento ha fatto la ricchezza dell’azienda di cui è comproprietario e reso prospera la comunità montana che sorge attorno a quella fonte. Pervaso di sacro fuoco civico tenta in ogni modo di divulgare ciò che ha scoperto, ma finisce emarginato, picchiato, esiliato. Il film ha un taglio rigoroso e si muove su una linea di tensione ferma e ben costruita. L'unico dato negativo è una spiccata genericità politica, che rischia, come già detto, di portare acqua al mulino di chi legge l’opera del drammaturgo di Skien come quella di un divulgatore del pensiero del suo contemporaneo Friedrich Wilhelm Nietzsche.

La seconda cinematografia ad avere avuto un posto di riguardo nel cartellone del festival è stata quella finlandese. Paha maa (Terra gelata, 2005) d’Aku Louhimies è un mosaico di storie articolate su una serie di personaggi finiti ai margini della società per responsabilità proprie o perché stritolati da meccanismi economici non più in grado di rispondere alle esigenze delle persone. Un brutale processo di riorganizzazione, su parametri economici, della scuola getta sul lastrico un insegnante di lettere e ne avvia la trasformazione in un barbone alcolizzato. Un giovane, cacciato dal padre che ha perso il lavoro, diventa uno spacciatore di moneta falsa e un drogato. La famiglia medioborghese di una poliziotta è distrutta dalla morte della donna durante un inseguimento. Un giovane hacker scivola, quasi senza accorgersene, nell’omicidio. E’ un quadro terrificante in cui sono scomparse certezze morali e salvaguardie economiche, un affresco che la regia disegna con acutezza, mantenendo salde le fila di un ordito complesso e denso di sviluppi. La parte più lucida e toccante è quella che coinvolge un venditore porta a porta d’elettrodomestici che perde il lavoro causa la passione per la bottiglia e finisce con l’uccidere, senza alcuna vera ragione, il balordo con cui si è casualmente accompagnato. Il film è realizzato con una predilezione per i toni cupi, le atmosfere notturne, gli interni anonimi e miserabili. E' davvero un’opera che merita attenzione.

Restiamo in Filanda con Äideistä parhain (Mia madre, 2005) di Klaus Härö, un melodramma a forti tinte, di quelli che fanno piangere le signore, anche quelle tendenzialmente coriacee. Siamo nei mesi della guerra russo – finlandese (novembre 1939 – marzo 1940), quando i finnici evacuano donne e bambini, in particolare gli orfani dei soldati uccisi in battaglia. Tale è il piccolo Eero, un ragazzino di nove anni che capita in una fattoria svedese dove abitata Signe, una giovane donna che ha appena perso una figlia. I rapporti fra lei e il piccolo sono subito difficili. Lui sogna continuamente di ritornare dalla madre naturale, Kirsti, e tenta persino la fuga. Lentamente il rapporto si consolida, le incomprensioni sono superate, al punto che, quando Kirsti rivuole indietro il figlio per Signe è un dolore simile ad una seconda perdita. La storia è raccontata in flash back evocati da Eero che, ormai anziano, è ritornato in Svezia per il funerale di Signe. Lo scenario è quello di un autentico dramma di guerra: furono ben 80 mila i bambini evacuati nei paesi scandinavi dall’inizio di quella guerra e 70 mila di loro furono accolti dalla Svezia. Il film prende le mosse da una racconto di Heikki Hietamies e usa abilmente e senza remore gli ingredienti del cinema strappalacrime, ma lo fa con dignità e onestà pregevoli. Gli interpreti della madre adottiva (Maria Lundqvist) e del piccolo orfano (Topi Majaniemi) hanno vinto i premi per le migliori interpretazioni femminile e maschile del festival.

Un altro ragazzino è protagonista di Zozo dello svedese Josef Fares. In questo caso lo scenario è quello della guerra civile libanese (1975-1990) e del flusso d’esiliati che ha causato: più di un terzo della popolazione. La famiglia del piccolo sta per partire per gli Stati Uniti, quando un corpo di mortaio uccide tutti, lasciando in vita solo il ragazzo. Alcuni anno dopo, lo ritroviamo in Svezia ove subisce il razzismo dei compagni di scuola. Il film ha un forte taglio civile ed è nettamente diviso in due, tanto che sembra l’assemblaggio di due opere distinte. Un difetto che non ne compromette del tutto il bilancio.

En Soap (Una Soap Opera) della danese Pernille Fischer Christensen è il classico testo per attori che poco si cura della verosimiglianza della storia, ma offre agli interpreti importanti occasioni per mostrare la loro arte. E’ quasi un film da camera, girato in set limitati – non più di tre – che racconta la storia d’amore fra una donna che fugge dal compagno manesco e un transessuale nell’attesa di mutare sesso chirurgicamente. Contrasti, diffidenze, scontri aspri, tutto si stempera in una caldo rapporto di solidarietà e comprensione che non tarda a trasformarsi in amore a tutto tondo con il trans che, forse, muterà di gusti. Il film è girato molto bene, tenuto in mano con fermezza dagli interpreti, ma non riesce a nascondere del tutto un certo gusto di già visto.

Drømmen (Noi vinceremo, 2006) di Niels Arden Oplev conferma la sensibilità del cinema di Copenhagen in direzione del filone democratico. Lo fa raccontando la lotta di un ragazzino contro un preside violento e conformista. Siamo nel bel messo dei mitici anni sessantotto e ogni atto minimamente anticonformista – dalla lunghezza dei capelli, alla musica del Beatles – desta scandalo e suscita le ire dei benpensanti. Ovvio che, al canto del mitico We Shall Overcame, i giovani si ribellino avviandosi ad una profonda rivoluzione, se non della politica, sicuramente nel costume e nei rapporti interpersonali. E’ un film corretto e democratico, ma nulla più. Addentriamoci nel panorama europeo con alcuni titoli variamente interessanti.

Love + Hate (Amore + Odio, 2005) dell’inglese Dominic Savane ritorna sul tema del razzismo con la storia di una ragazza pakistana che s’innamora di un giovane inglese. La famiglia di lei e i pregiudizi di lui intralciano la relazione rischiando di sfociare nel dramma. Una previdenziale fuga a Londra aprirà, forse, nuovi orizzonti. E’ una nuova testimonianza della sensibilità civile del cinema britannico e dell’influenza esercitata da Ken Loach su molti autori.

Komornik (L’esattore) del polacco Feliks Falk conferma l’interesse dei cineasti che operano nei paesi ex – socialisti per la denuncia dei guasti e degli sconquassi morali causati dall’arrivo di un capitalismo selvaggio che ha sostituito le maschere ideologiche con la corsa alla ricchezza. Anche in questo caso la condanna morale ha più forza dei valori stilistici. La storia ha al centro un esattore giudiziario che diventa quasi un santo e rinuncia ad ogni avere. 

Gli orrori della guerra che ha portato alla dissoluzione dell’ex - Jugoslavia sono stati spesso oggetto di rappresentazione da parte delle cinematografie dei paesi nati da quella diaspora. E’ ora la volta del bosniaco Ahmed Imamovic che, in Go West (Andare a Occidente), racconta la storia, non originalissima, dell’uomo che si finge donna per sfuggire alla guerra. Milan, uno studente serbo, è l’amante di Kenan, un violoncellista mussulmano. La loro relazione, già impossibile nel quadro della guerra etica che  contrappone Belgrado a Sarajevo, è resa ancor più drammatica dalla relazione omosessuale che lega i due. Gioco forza vestire Kenan in panni muliebri e tentare di espatriare. Fortunosamente la coppia raggiunge il villaggio natale di Milan, il cui padre organizza una cerimonia nuziale vera e propria. Gli eventi precipitano, il marito è chiamato alle armi e muore in guerra, la moglie, anche se sessualmente svelata, riesce ad andare all’estero. Il film utilizza molti elementi alla Kusturica e non brilla per originalità, giocando le carte migliori su un tono ironico e amaro. E' un taglio che non evita del tutto le gigionerie di mestiere, anche per colpa della scarsa direzione nei confronti del divo Rade Serbedzija, qui impegnato nella parte del padre tollerante o doloroso.

Die Bluthochzeit (Il banchetto di nozze) del tedesco Dominique Deruddere racconta di un’allegra comitiva, capitanata da un riccastro supponente e arrogante, che si appresta ad un banchetto di nozze, quando, per un banale incidente, la festa si trasforma in uno scontro fra gli ospiti e il cuoco, con tanto di assedio e fucilate. Dovrebbe essere una metafora sulla futilità della ferocia che attraversa la nostra società, ma tutto resta a livello di semplice intenzione con gli spunti farseschi che fanno premio su quelli tragici e simbolici. Non sorprende che abbia ottenuto il premio del pubblico.

I due titoli più curiosi in cartellone sono venuti dal Cile e dal Vietnam. En la cama (A letto) di Matías Bize è uno straordinario esercizio di stile e d’analisi psicologica. Durante un tempo, vicino a quello reale, la macchina da presa pedina una coppia occasionale che fa all’amore, chiacchiera, si spia. Lo scenario è quello di una camera d’albergo e la regia mostra un grande equilibrio nel contrappuntare sequenze erotiche – mai morbose o compiacenti – con un dialogo acuto e ricco di attenzioni alla psicologia dei personaggi.

Hat mua roi bao lau (La sposa del fuoco) dei vietnamiti Minh Phuong Doan e Thanh Nghia Doan ha ricevuto una menzione speciale all’ultimo festival di Rotterdam ed è stato presentato in molte altre rassegne. E’ un film affascinante sia per il rapporto che stabilisce fra vicenda e paesaggio, sia per la poesia che aleggia in tutta l’opera. La storia è racconta in flash back e narra di una donna, cacciata dal villaggio natale perché incinta senza essere sposata, che finisce contesa da due fratelli. E’ un tipo di cinema dallo stile un po’ vecchio, ma costruito con raffinatezza e misura.

Il festival ha sempre prestato attenzione al cinema indipendente americano di cui ha presentato, negli anni, opere di grande interesse. Possiamo anzi affermare che, con il passare del tempo e il rafforzarsi del prestigio del Sundance Film Festival, i numero dei titoli rilevanti è venuto progressivamente infittendosi. Citiamo Man Push Cart (L’uomo che spinge un carrello) dell’americano, d’origine pakistana, Ramin Bahrani già coronato ai festival di Salonicco (premio del pubblico) e Londra (premio FIPRESCI).

Nella sezione più specificamente riservata ai film USA indipendenti ha destato molto interesse The War Within (La guerra interna) di Joseph Castelo in cui si affronta il problema del terrorismo descrivendo, con lucidità e senza estremismi, sia le ragioni di chi vi arriva provenendo da una terribile esperienza di torture e repressione, sia chi, ormai integrato nella società americana, vi si oppone con sdegno. I due volti di questa medaglia sono rappresentati da Hassan, un militante islamico pakistano rapito e torturato, ed ora arrivato a New York con il compito di organizzare un attentato suicida, e da Sayeed, l’amico inconsapevole che lo ospita e che si è costruito una pozione nella società americana. Il finale sarà tragico, con la distruzione di entrambi: uno suicida in mezzo ai viaggiatori della Grand Central Station, l’altro arrestato dall’FBI come complice. I due personaggi sono costruiti con cura e senza schematismi, le ragioni della follia terrorista ci sono tutte, ma la condanna dell’uccisione di innocenti è altrettanto forte. La struttura narrativa oscilla fra quelle del film d’azione e l’analisi psicologica, ma questo non inquina la linearità complessiva dell’opera.

Decisamente singolare è la proposta narrativa portata avanti da One Last Thing... (Un’ultima cosa…) di Alex Steyermark in cui tutto ruota attorno all’ultimo desiderio – passare un fine settimana con una top model – di un ragazzo, ammalato terminale di leucemia. Il tono e quasi da commedia, anche se il tema è tutt’altro che lieto e il finale si lascia perdonare il tono eccessivamente sentimentale con un bel ritratto di questo ragazzo che sa di dover morirete da lì a poche ore.

Del tutto diverso il ritmo impresso da Selim a Sweet Land (Dolce terra). Qui siamo decisamente dalla parti del cinema epico con la storia di un’immigrata tedesca che, negli anni venti, arriva negli Stati Uniti senza conoscere una parola d’inglese. Viene qui per sposare un americano, d’origine teutonica, che l’ha maritata per corrispondenza. La Prima Guerra Mondiale è finita da poco e l’ambiente a cui va incontro è più che ostile nei suoi confronti. Con ferrea volontà e l’appoggio cocciuto del marito, riesce a superare ogni ostacolo, guadagnarsi la stima della comunità e costruire un’azienda solida. Anche questa volta il discorso è costruito in flash back, un modo di narrare che sembra diventato il segno distintivo del cinema dei nostri tempi.

Umberto Rossi