Festival di Istanbul 2006
TITOLO: Le strade del
cinema turco Data: 27/4/2006 |
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Il Festival Internazionale del Film di Istanbul ha raggiunto le venticinque edizioni e, oltre alle celebrazioni di rito, ha annunciato una vera e propria rivoluzione delle strutture. Esce dalla scena, dopo ventiquattro anni, Hülya Uçansu, la gran signora che lo ha guidato, con intelligenza e mano ferma, facendolo crescere da piccola rassegna locale a grande manifestazione di prestigio internazionale. Al suo posto andrà Azize Tan, per anni sua assistente, e la cosa potrebbe far pensare ad un armonico cambio generazionale, sennonché una certa tensione e le note propensioni ai clamori divistici di Şakir Eczacibaşi, gran patron della manifestazione e presidente della Fondazione nel cui ambito la rassegna opera, fanno supporre un cambio di rotta in favore della ricerca di grandi star e una parallela riduzione di risorse e attenzione al versante culturale. Già quest’anno la presenza di Catherine Deneuve, Isabelle Hupert, Gérard Depardieu e Alain Delon ha inciso pesantemente sulle disponibilità culturali della manifestazione. La scelta sembra, anche in questo caso, quella di favorire il clamore anche a scapito della promozione d’opere di grande valore culturale o di film importanti anche se non baciati dallo star-system. La parte più interessante della rassegna è stata, come gli anni precedenti, quella riservata al cinema turco ove è stato possibile cogliere le principali linee d’indirizzo di questa cinematografia. Una prima tendenza riguarda i film di genere che continuano ad essere uno dei cavalli di battaglia cui s’ispira la produzione di questo paese. Facciamo qualche esempio.
Beyza’nin Kadinlari (Anima in frantumi) di Mustafa Altioklar naviga dalle parti del thriller con variazioni orrorifiche e spiegazioni parapsicologiche. Il regista ricorre all’abusata categoria del possibile assassino dalla personalità multipla, in questo caso una donna che ha subito violenza in giovane età. Personaggi e situazioni non nuove, così com’è ampiamente prevedibile la sorpresa finale con il marito della supposta colpevole che si rivela essere il vero autore dei molti omicidi che costellano il percorso del film. E' un’opera banale, zeppa d’atmosfere notturne, zampilli di sangue, macelleria varia che non aggiunge nulla al cinema che già conosciamo, limitandosi a ripeterne alcuni clichè.
Con Dondurmam Gaymak (Io grido: gelati!), opera d’esordio del documentarista e regista televisivo Yüksel Akusu, e con Sinema Bīr Mucīzedir (Il cinema è come un miracolo) del veterano (classe 1920!) Memduh Ün e Tunç Başaran, ci spostiamo sul versante della commedia sentimentale. Il primo film racconta la tragicomica odissea di un venditore ambulante di gelati artigianali cui una banda di ragazzini ruba il carretto e saccheggia il gustoso carico. Disperazione del proprietario, che ha comprato il mezzo a rate, sospetti di una trama ordita dalla multinazionale del dolce prodotto e lieto fine grazie al terribile mal di pancia di cui cadono preda i monelli che si sono ingozzati di crema e cioccolato. Siamo dalle parti delle commedie popolari d’impianto semplice e spirito conciliatorio che segnano molte cinematografie mediterranee, ma è inutile cercarvi qualche guizzo di novità o, più semplicemente, elementi d’aggancio alla realtà del paese, come accadeva con la commedia italiana. In poche parole una farsetta paesana senza capo né coda.
Diverso il caso de Il cinema è come un miracolo avviato dall’anziano maestro del cinema turco, ma portato a termine da Tunç Başaran dopo la grave malattia che ha colpito l’anziano regista, rende omaggio, ad un tempo, alla magia del film e a Nuovo Cinema Paradiso (1989) di Giuseppe Tornatore. In una cittadina di provincia un ragazzino undicenne, cinofilo accanito, stringe amicizia con il proprietario del grande teatro della città, che sta attraversando una grave crisi. L’arrivo di una troupe, comprendente un famoso divo, che tenterà il rilancio del teatro, porta al settimo cielo il ragazzo e l’anziano esercente. La storia s’intreccia con le prime pulsioni amorose del giovane e con i mutamenti politici che segnano la città dopo le elezioni vinte da un non meglio precisato Partito Democratico. Nel film c’è molta cinefilia e molto amore per la settima arte, ma nulla di veramente originale, né sul piano tematico, né su quello stilistico.
Molto più interessanti altri due titoli che, per quanto diversissimi, sono accomunati dal tentativo di affrontare problemi nuovi e percorrere strade stilisticamente più originali. Baban ve oğlum (Mio padre e figlio) è l’opera seconda di Çağan İrmak. Il film parte dal dramma di coloro che hanno patito prigione e maltrattamenti durante il regime militare dei primi anni ottanta. Un militante politico, catturato mentre accompagna all’ospedale la moglie che sta per partorire, è imprigionato e torturato. Quando esce dalla galera, sette anni dopo, non è più lo stesso: deve accudire il figlioletto rimasto orfano, la madre è morta nel darlo alla luce, e non sa come fare. Decide di ritornare a casa, nella fattoria paterna dove la madre lo attende a braccia aperte, mentre il genitore quasi non vuole parlargli in quanto non gli perdona di aver dissipato la gioventù correndo dietro a ideali sovversivi. Lentamente, anche grazie ai teneri occhioni del bimbo, la distanza fra i due si riduce sino alla completa riconciliazione, quando il genitore scoprirà che il figlio sta per morire per le percosse subite in galera. I piccolo non riesce a darsi ragione della morte del padre e solo il ricorso alla fantasia e alla immagini di un vecchio filmino lo indurranno ad accettare la realtà e una nuova vita. E’ un’opera che sparge sentimentalismo a palate, ma è ben costruita, efficientemente interpretata (il protagonista, Fīkret Kuşkan, ha ricevuto il premio per la migliore interpretazione maschile) e tocca nervi ancora scoperti della Turchia moderna.
İkī genç kiz (Due ragazze) di Kutluč Ataman guarda direttamente ai problemi di oggi, raccontando la storia di due amiche legate da un sentimento profondo quanto ambiguo, tanto che il film ha vinto il premio del pubblico all’ultimo festival gay e lesbico di Torino. Una delle due viene da una famiglia povera dove ricopre il ruolo servile tipico della casalinghe turche. L’altra è figlia di una donna economicamente rovinata, ma che vive ancora come una gran signora. Il loro incontro sigilla il sodalizio di due disperate solitudini che non riescono a salvarsi neppure spalleggiandosi. E’ il quadro di una rivolta destinata al fallimento sin dalla prime immagini, una lotta impari contro forze - sociali, morali, economiche – che due fragili ragazze non possono certo battere. E’ un’opera girata con stile sporco, quasi amatoriale a significare una realtà che non può essere abbellita in alcun modo. Il taglio e la confezione sono molto interessanti, ma la storia non ha praticamente sviluppo, impostata come è sin dalla prime immagini su un binario a senso unico.
Il film più importante e che ha vinto numerosi premi, è stato Beş vakīt (letteralmente: Cinque tempi, ma il titolo internazionale è Tempi e venti), quarta opera di Reha Erdem. L’ambientazione è quella di un piccolo villaggio collinare nel nord dell’Egeo ed è cadenzato in cinque parti come i momenti del giorno (alba, mattino, mezzogiorno, pomeriggio, sera). Cinque momenti come le cinque chiamate alla preghiera che il fedele osservante deve rispettare durante il giorno. In questo caso lo scorrere del tempo diventa sinonimo del fluire della vita, dell’alternarsi di gioie e dolori, speranze e delusioni, ingiustizie e risarcimenti. Il tutto come una sorta di grande, maestoso, lento scenario che ruota attorno a tre ragazzini, due studenti e un pastorello, alle loro prime pulsioni amorose e al confronto con le difficoltà di un’esistenza ferma nel tempo. Una sinfonia cadenzata dalla scoperta della vita che arriva e della morte che cancella ogni cosa. E’ un cinema dal ritmo lento, in cui nulla sembra accadere se non le piccole cose di tutti i giorni, ma che, in realtà, pullula di emozioni e sentimenti. La strada è la stessa aperta dalla nuova generazione di cineasti turchi, quella che ha il maggiore esponente in Nuri Bilge Ceylan (Uzak - Distante, 2002 - e Mayis sikintisi - Le nuvole di maggio, 1999 -). Un clima culturale che, in questo caso, si avvicina molto a quello che segna le opere di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, 1978) o quelle di Franco Diavoli (Il pianeta azzurro, 1981). Un modo di raccontare che riflette sulla normalità della vita per distillarne i succhi più profondi.
Umberto Rossi