Cinema georgiano dopo il 1989
TITOLO: La Georgia
come una goccia d'acqua Data: 1/12/1999 |
Nel novembre 1989 il crollo del muro di
Berlino ha spezzato molte catene, abbattuto o cambiato profondamente
istituzioni polverose la cui grigia ombra gravava da poco meno di mezzo
secolo su molti paesi. La ventata d'aria fresca originata dalla fine
dell'impero sovietico si è presto trasformata in una tempesta che ha
percorso, a velocità crescente, pianure e montagne polverizzando regimi
che, sino a pochi mesi prima, sembravano eterni. Gli effetti sono stati
diversi da nazione a nazione; in paesi di più antico spirito unitario e
maggiore tradizione parlamentare ci si è limitati a brevi mareggiate, in
altri il trauma è stato profondo e ha innescato guerre civili,
imbarbarimento, sanguinosi scontri etnici. In Cecoslovacchia e Ungheria il
potere passava di mano, in modo più o meno "vellutato", tanto
che persino la divisione in nuovi stati autonomi, come nel caso delle
repubbliche ceca e slovacca, avveniva più in un turbinio di decreti e
appelli ai tribunali internazionali che non a colpi di mitra. In altre
regioni, invece, esplodevano terribili guerre civili. La dissoluzione
dell'Unione sovietica, nel 1991, ha ulteriormente aggravato la situazione,
scatenando una serie di conflitti regionali accompagnati da guerre civili,
perduranti tensioni su base etnica e religiosa. In questo modo ha preso il
via la più pericolosa esplosione di nazionalismi che la storia
contemporanea abbia conosciuto. Un marasma che ha innescato di feroci
scorribande, pogrom razziali e crudeltà indicibili. In questo, sia detto
per inciso, si misura la dimensione del fallimento del così detto
"socialismo reale" e la degenerazione che una classe dirigente
boiarda e gretta che ha gettato nel fango un'idea generosa e tutt'altro
che priva d'attualità, quella del socialismo. Il segno più evidente è
stato il proliferare di repubbliche e repubblichine, spesso rette dai
medesimi satrapi allevati nel ventre del PCUS. Staterelli che hanno subito
issato le bandiere di una pletore di nazionalismi storicamente
giustificati, quanto modernamente incongrui. Il crollo delle strutture
socialiste, dunque, se ha abbattuto molti regimi autoritari, ha anche
fatto terra bruciata d'istituzioni e normative il cui bilancio contiene
anche dati positivi. La furia con cui, spesso, è stato ripudiato tutto
ciò che era stato varato in passato, ha assunto toni razionalmente non
spiegabili. E' un processo che, spesso, è sembrato assai più simile ad
una forma di vendetta le cui radici affondano in quello stesso terreno
che, con coincidenza più o meno stretta, ha fatto divampare passioni
religiose e furori etnici. Certo, nei paesi di più antica tradizione
politico - parlamentare anche il recupero della razionalità è avvento in
tempi abbastanza rapidi. In Ungheria, ad esempio, molte strutture sociali,
messe in discussione nelle settimane in cui il regime è crollato, sono
state ripristinate, dopo essere state adeguatamente riformate, nel giro di
un paio d'anni. Nella Repubblica Ceca la voglia di liberismo selvaggio è
durata più a lungo, ma anche a Praga il moto d'intelligente recupero
appare avviato. In Slovacchia, invece, il vecchio dirigismo statale stenta
a morire sorretto, anche, da forti stimoli nazionalisti. Particolare la
situazione polacca ove, molti fattori interni - il tradizionale odio verso
gli occupanti russi, il potere della chiesa e le conseguenze dei conflitti
dei primi anni ottanta - hanno complicato il quadro, tuttavia anche a
Varsavia ci si sta muovendo sul terreno dell'equilibrio fra voglia di
libertà e impegni solidaristici. Diversa la situazione nei paesi
balcanici e in quelli caucasici ove il passaggio di regime ha assunto
quasi sempre un carattere devastante. In Romania più che in Bulgaria, in
Abhasia più che in Georgia, in Azerbaigian più che in Cecenia tensioni
etniche, interessi economici, fanatismi religiosi hanno innescato
conflitti sanguinosi. Quasi tutte le vecchie strutture statali sin sono
sbriciolate, lasciando il posto ai clan, ai gruppi gangsteristici, alle
consorterie etnico - tribali. La guerra per bande è diventata norma, la
pulizia etnica si è trasformata in regola, gli odi atavici - mascherati,
ma non disinnescati da settant'anni di potere sovietico - sono esplosi con
una virulenza proporzionale al lungo periodo in cui erano stati compressi.
Il Caucaso e il cinema georgiano Il Caucaso è stato uno degli epicentri di queste turbolenze; dove esisteva una grande repubblica federata all'URSS, la Georgia, oggi esistono una decina di stati e staterelli al cui interno vi sono enclavi di diversa origine etnica e religiosa. Tutto questo aggrava le tensioni e innesca reazioni a catena che sfociano sistematicamente in conflitti armati. Qui l'imbarbarimento ha trovato facile esca nella composizione multietnica delle regione, nella miscela di religioni, nei rancori, mai spenti, causati da aggressioni e guerre che risalgono la notte dei tempi. Duole dirlo, ma la situazione in cui oggi versa questa regione, culturalmente pregevole per molti aspetti, sembra dar ragione a coloro che ne sottolineano la condizione pre - moderna, il diffuso sentire non politico bensì tribale. In che misura questa premessa si collega ad un discorso sul cinema georgiano contemporaneo? Il punto di contatto sta nella necessità di capire un passaggio che risulta evidente nella quantità della produzione e nelle opere stesse. La frattura, violenta e culturalmente clamorosa, che questo cinema patisce fra il "prima" e il "dopo" la fine dell'URSS, è certamente spiegabile con le gravissime vicende interne: lo scontro con l'Abhasia, la guerra civile, le turbolenze cecene, il conflitto fra armeni e azeri, le ingerenze turche e quelle russe, l'odio fra mussulmani e cristiani. Tuttavia le vere radici vanno ricercate, soprattutto, nella distruzione di quell'impalcatura - centralizzata e burocratica quanto si voglia - che per decenni ha retto il cinema di questa come d'altre repubbliche sovietiche. Una struttura zeppa d'insidie e pervasa di spirito censorio, ma anche dispensatrice di risorse non legate agli esiti di mercato, capricciosa, ma spesso disattenta, indottrinata, ma anche disposta al compromesso e all'accordo sottobanco. Una strana miscela, fra il borbonico e il levantino, che distruggeva chi osava affrontarla a viso aperto, ma sopportava, quando non coccolava, che vi si adattava. Il grande cinema georgiano, quello irridente e melanconico del primo Otar Ioseliani, quello fantastico dei vari Tengiz Abuladze, Lana Gogoberidse e, per certi versi, persino quello del perseguitato Sergej Paradžanov, era figlio, oltre che della cultura del paese, anche di questo clima politico e culturale. La distruzione di questo puntello ha aperto un baratro, una voragine che in paesi più "tranquilli" è stata subito colmata da un'alluvione di film americani. Qui, invece, pochi hanno osato investire in sale rinnovate o film importati e pochissimi si sono avventurati nella produzione. Solo negli ultimi anni, approfittando d'alcuni spazi di normalità si è aperta la via a poche coproduzioni, soprattutto con la Francia. Non è un caso che l'autore più lucido di cui dispone ancor oggi questa cinematografia, Otar Ioseliani, realizzi i suoi film in conformità a complesse operazioni di coproduzione fra vari paesi e, spesso, d'iniziativa francese o italiana Già che abbiamo citato questo regista sia consentito spendere qualche parola sul suo lavoro. Il "caso" Ioseliani Una delle contraddizioni apparenti del cinema georgiano contemporaneo è riassumibile nella figura di quest'autore, uno fra i pochi di fama internazionale di cui disponga questa cinematografia. Egli ha abbandonato il paese sin dal 1982, costretto dalla censura sovietica ad un esilio semivolontario che lo ha portato a stabilirsi a Parigi. Partendo da questo, ci si poteva aspettare che il suo diventasse un cinema cosmopolita o, comunque, decisamente sradicato dalle origini culturali del paese. In fondo, era ciò che era successo ad altri cineasti di non minore forza creativa, si pensi ai film girati da Andrej Tarkovskij fuori della Russia e a quel "La rivolta" (1983) che Yilmaz Güney realizzò a Parigi dopo essere fuggito dalle carceri turche. Otar Ioseliani, invece, ha mantenuto fede al suo stile ironico, onirico, surreale, politicamente sferzante, anarchico. Sin da "Un incendio visto da lontano", realizzato in Francia nel 1989, il suo sguardo è rivolto alla stupidità e alla sostanziale ferocia di un mondo che non apprezza "i merli canterini" ("C'era una volta un merlo canterino", 1973) e preferisce la caccia al potere al gusto per la musica ("Pastorale", 1976). Girato in Africa, il film racconta la vita quotidiana di un piccolo villaggio il cui equilibrio sociale e culturale è minacciato dalla marcia di una civiltà che porta solo ferocia, morte e distruzione. Lo sguardo di Ioseliani è forse eccessivamente legato ad un'immagine idilliaca della vita primitiva; una posizione da cui guarda con sprezzo la beluinità dell'essere umano, anche di quello rivestito di civiltà. Lo si capirà bene nel successivo "Caccia alle farfalle" (1992). Il film ruota attorno alla lotta di due anziane nobildonne, ultime custodi di un vecchio maniero, contro gli speculatori che vorrebbero impossessarsi dell'immobile. Uno scontro che esemplifica, in modo sin troppo diretto, la stupidità e la ferocia che segnano la società moderna. Le due anziane sono viste come vestali di una società destinata a morire, ma ancora ricca di prestigio. Sono le presenze scomode e discordi in un mondo segnato da guerre, catastrofi, terrorismo. Quello di Otar Ioseliani è sempre uno sguardo disperato, intriso di bonomia e d'ironia. Il film ha sequenze favolistiche alternate a brani quasi didascalici e anticipa quello che diventerà lo stile usuale di questo cineasta. Quattro anni dopo sarà la volta di "Briganti" in cui è di scena lo staterello immaginario di Vano, minuscola nazione perennemente in guerra con i vicini, continuamente alle prese con congiure, delitti politici, faide, scontri di fazioni. Impossibile non vedere nel film una metafora della situazione georgiana e, più in generale, del mondo moderno. Il racconto procede, ancora una volta, per sequenze in cui la favola s'intreccia con una sorta di realismo volutamente falso. E' lo stesso processo stilistico che quest'autore aveva utilizzato, due anni prima, in "Sola, Georgia", un documentario poetico di quattro ore che ripercorre la storia del pese dal 1801 alla metà degli anni novanta. Una frase del regista sintetizza l'obiettivo: "La Georgia d'oggi è un sintomo di ciò che accade nel pianeta e ci offre una possibilità di misurare quanto sta avvenendo; allo stesso modo che una goccia d'acqua ci consente di misurare la dimensione delle tragedie umane". Il documentario è in due parti. La prima va dai primi anni dell'ottocento sino alla rivoluzione d'ottobre, ed esalta la ricchezza della cultura autoctona di una regione che gli zaristi tentarono in ogni modo di russificare. Il film presenta un doppio motivo d'interesse: da un lato testimonia una forte autonomia culturale, dall'altro spezza un lancia in favore di una rivendicazione nazionalista. Quest'ultimo aspetto funziona assai bene quale sintomo di un germe sinora assai poco studiato. In moltissimi paesi, già appartenenti all'area del socialismo reale o integrati nell'Unione Sovietica, la caduta del regime non ha innescato movimenti democratici, intesi in senso occidentale, quanto forti correnti nazionaliste. E' come se la storia, cloroformizzata per molti decenni, si fosse risvegliata allo stesso punto in cui si era assopita un secolo or sono. Del resto, che le pulsioni nazionali fossero ben lontane dall'essere state spente una volta per tutte, lo dimostrano fatti di costume, apparentemente marginali, come il culto di Stalin. Nella regione la figura del dittatore d'origine georgiana è stata venerata per decenni, anche dopo la sua messa all'indice decretata dal XX Congresso del Partito Comunista dell'URSS, nel 1956. Il fatto è che il dittatore "d'acciaio" era amato non come militante rivoluzionario, bensì quale personalità universalmente conosciuta nata a Gori, in questa terra. La seconda parte del film muove dalla Rivoluzione dei Soviet e giunge sino alla secessione dell'Abhasia e alla guerra civile. Qui il regista utilizza documenti, in gran parte inediti, per una perorazione contro la guerra e la ferocia dell'umanità che ben si lega allo spirito e allo stile degli altri suoi film. L'ultima fatica di Otar Ioseliani s'intitola, in Italia, "Addio Terraferma" (1999) e racconta di una ricca famiglia governata da un'importante donna d'affari, il cui marito è un alcolizzato cronico. Il loro figlio vive di piccoli lavori, ha alcuni barboni come amici e finisce in prigione per una rapina ad un supermercato. Il tema è, ancora una volta, quello dei nuovi ricchi, della loro volgarità e della cupidigia con cui dilapidano ogni valore. Alcune situazioni sono tratteggiate con mano leggera e gusto per il paradosso, anche se l'insieme dell'opera, girata molto bene e fotografata ancor meglio, sembra segnare un punto d'arresto, una fase ripetitiva nel lavoro di un cineasta che, spesso, è riuscito a stupire per ironia e originalità. Cinema georgiano dopo il 1989 Ritorniamo al cinema georgiano dal 1989 in poi. Si è già detto dello scarso numero dei film prodotti. Nell'impossibilità di una verifica sul campo, ci siamo affidati ai programmi di alcuni grandi festival cinematografici: Berlino, Istanbul, Cannes, Karlovy Vary, Venezia, Torino, Salonicco. Scorrendo i cataloghi delle ultime dieci edizioni di queste manifestazioni, abbiamo individuato dodici titoli di produzione georgiana, cinque opere firmate da Otar Ioseliani sotto varie bandiere e sette film di nazionalità diversa i cui soggetti hanno a che fare con i drammi di questa regione. Approfondiamo l'esame iniziando da uno sguardo al quadro complessivo. Diciamo subito che si tratta di una situazione fortemente influenzata dalla condizione del paese. Dopo la proclamazione dell'indipendenza e un breve periodo di vita relativamente democratica, s'impone la dittatura di Ziavid Gamsachurdija, che rimane al potere dal novembre 1990 al dicembre 1992. Una dittatura dalle caratteristiche singolari, visto che, all'inizio questo presidente è stato eletto a suffragio universale dai georgiani. Nel frattempo c'è stata la guerra, persa dall'esercito georgiano, contro i separatisti abhasi, conflitto che termina nel novembre 1993 con la nascita di un nuovo stato autonomo, l'Abhasia, che priva il paese del 12,5 per cento del suo territorio. La sconfitta rende debolissime le strutture statali, getta il paese in una crisi economica gravissima e innesca una vera e propria guerra civile fra le milizie di Ziavid Gamsachurdija, che nel frattempo è stato privato del potere, e le forze regolari. Gli scontri hanno fine con la morte misteriosa del dittatore che, secondo alcuni, si uccide, mentre, secondo altri, è giustiziato dai governativi. In tutta questa vicenda il governo russo adotta un comportamento ambiguo, da un lato, desideroso di indebolire uno stato concorrente nell'area, ma, nello stesso tempo, preoccupato della nascita di una nuova nazione. La guerra di secessione abhasa contribuisce a sconvolgere ulteriormente l'area. La Georgia è messa in grave crisi dall'arrivo di oltre 200 mila profughi provenienti dalle regioni che formano il nuovo stato. Quest'ultimo nasce sulla base d'equilibri etnici complessi e precari: ha 525 mila abitanti, ma ben 240 mila sono di origine georgiana e solo 90 mila di etnia abhasa. La debolezza della Repubblica Georgiana induce Eduard Shevardnadze, ex ministro degli esteri di Gorbacëv e nuovo uomo forte del paese, ad accettare il pressante invito ad entrare, il 22 ottobre 1993, nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), egemonizzata da Mosca. Una decisione adottata dal parlamento - con 125 sì, 69 no e quattro astensioni - dopo un duro confronto fra maggioranza e opposizione. Questo per la cronaca, per quanto riguarda il cinema, il quadro rientra, almeno sino al 1992, in quella che potremmo definire la "situazione URSS", con un numero di film abbastanza indicativo: due nel 1989, tre nel 1991, cinque nel 1992. Dal 1993 in poi la produzione subisce un duro colpo sia a causa delle gravi difficoltà economiche, sia come conseguenza delle distruzioni innescate dalla guerra civile. Sono della prima fase alcuni titoli, anche importanti, la cui struttura risponde ad alcuni canoni del tipico cinema sovietico. Così è, ad esempio, per "Il giorno" (1989) di Lewan Glonti, un mediometraggio di sessantun minuti su un giovane che osserva, dalla finestra, la vita di tutti i giorni a Tibilisi. C'è in questo il segno delle possibilità che il vecchio sistema concedeva ai cineasti, senza preoccuparsi di un qualsiasi responso del pubblico, infatti, il soggetto e la durata del film lo pongono, quasi automaticamente, al di fuori di qualsiasi possibilità di sfruttamento commerciale. C'è anche il segno della lezione del cinema individualista e ironico del primo Ioseliani, con quel gusto esasperato e benevolo per la tranquillità delle sguardo, il piacere dell'osservazione della vita ordinaria, il rifiuto dell'attivismo e della retorica. "Il valzer sul fiume Pechora" (1992) di Lana Gogoberidse, invece, è più vicino al giovane cinema sovietico che, proprio in quei mesi, incontra un terreno politico che consente di guardare criticamente al passato. Il film racconta le storie parallele di una deportata negli anni dello stalinismo e di una tredicenne, finita in orfanotrofio dopo l'arresto dei genitori. La vicenda ha caratteristiche fortemente autobiografiche e la regista dovrà patire persecuzioni politiche anche in anni più recenti, sino ad essere costretta a vivere alla macchia braccata dalle milizie di Zviad Gamsachurdija. Lo stile dell'opera, generosa e politicamente impegnata, non si discosta da quello analogo di una generazione che intese la glasnost come occasione per poter finalmente gridare verità troppo a lungo nascoste. Capita spesso, in situazioni analoghe, che alla forza della protesta politica non si accompagni un'analoga rivoluzione stilistica. Ne deriva che i modi di raccontare e il vigore della denuncia continuarono a basarsi più su ciò che è "detto" che su quanto "visto". Interessante, in questo senso, "Danza notturna" (1991) di Aleko Zabadse. E' una storia basata su molti personaggi, uno dei quali mussulmano, che simboleggiano i vari modi di vivere la transizione dal socialismo nella Georgia moderna. L'ambiente è quello di una città industriale ove il disilluso Moshe - nome di chiara connotazione ebraica - lavora, come la sua romantica amica Shiba, in una grande acciaieria. La loro vita è una lotta continua contro la stupidità dei burocrati, la mancanza di scrupoli dei potenti, le continue ruberie. Queste ultime sono ben rappresentate da Maxim, un lestofante che imbroglia chiunque capiti a tiro. Tutt'intorno si muovono varie figure, dal mussulmano Telman al poliziotto Babilina, sino a due immigrati vietnamiti. Un quadro complesso e variopinto che ben sintetizza il mosaico di una società in turbolenta trasformazione. Il film è importante perché lascia trapelare i primi annunci degli scontri etnici che stanno per trasformarsi in guerra civile. Si tratta, in altre parole di un momento di passaggio dalla bonomia ironica del primo Ioseliani e le immagini atroci della guerra fratricida. Sullo stesso registro si muove Temur Bavluani, autore de "Il sole dei vigilanti" (1992).E' la storia del dottor Gela, un medico georgiano che lavora alla messa a punto di un suo medicinale capace di guarire il cancro. Tutti lo deridono e lo ostacolano, al punto che è licenziato dall'impiego presso il Pronto Soccorso dell'ospedale locale. La sua vita familiare non va meglio: suo figlio commette una rapina, è arrestato e, in prigione, subisce i maltrattamenti di un guardiano sadico. La moglie, d'altro canto, non crede nel suo lavoro e, per dissuaderlo, rimette in libertà i topi che lo studioso aveva rinchiuso nel granaio ove aveva istallato il suo laboratorio. Il medico, disperato, tenta la carta estrema: si inocula il vaccino, ma muore avendo usato una siringa non sterile. Qualche mese dopo, il figlio scorge, fra le macerie del laboratorio uno dei topi ammalati di cancro che il padre aveva curato con il suo rimedio. L'animale gode ottima salute e appare più vispo che mai. E' una parabola sull'umiliazione che l'intelligenza ha dovuto subire per colpa di un regime oppressivo e sulle ferite che, dopo la caduta della dittatura, le sono state inferte dalla ferocia cieca degli uomini. Il film ha una struttura robusta e il pregio di unire un taglio decisamente drammatico a uno stile quasi favolistico. In questo il regista sancisce una sorte di matrimonio estetico fra la fantasia, di cui è tradizionalmente ricca la creatività georgiana, e un forte spirito di denuncia sociale. Muovendoci sempre sul terreno del cinema di forte collegamento con il sociale, incontriamo "Informazione rapida" di El'dar Šengelaja. Questo regista è un protagonista della storia contemporanea del cinema georgiano. Egli è figlio del famoso Nikolaj (1901 - 1941), cui si deve la rinascita della cinematografia regionale dopo la rivoluzione d'Ottobre, e dell'attrice Nato Vatchnadze (1904 - 1953), oltre che fratello di un altro famoso cineasta: Georgij. Il suo impegno politico si esprime subito dopo la proclamazione dell'indipendenza, allorché diventa il segretario della neonata Unione dei Cineasti Georgiani. Per questo e per l'impegno con cui si batte per il rispetto delle regole democratiche, è perseguitato durante la dittatura di Gamsachurdija. "Informazione rapida" è ambientato nei giorni della battaglia gorbacioviana per la perestrojka e la glasnost. A Tibilisi, il direttore di una fabbrica di succhi di frutta è accusato di corruzione e di peculato. La televisione aggrava la dose, montando il caso d'alcuni avvelenamenti che sembrano stati causati dallo sciroppo di rosa canina prodotto nella fabbrica. Si vara, persino, una trasmissione in diretta, da cui il titolo del film, che informa il pubblico, minuto per minuto, sugli sviluppi dello scandalo. I familiari e gli amici del bersagliato muovono inutilmente le loro conoscenze. L'accusato, che in un ultimo disperato tentativo ha preso contatto con rappresentanti dei movimenti anticomunisti, finisce dietro le sbarre. Sarà liberato solo dopo la caduta del regime. Durante la dittatura di Zviad Gamsachurdija, il film è stato proibito, forse perché era considerato un'offesa alla capacità dei georgiani di combattere la potenza moscovita. E' un'opera sicuramente sbilancia sul versante militante e propagandistico, in cui i rari momenti ironici appaiono come soffocati da un obiettivo programmatico che ne tarpa le ali. Sempre in campo di opere collegate ai drammi dell'attualità, si deve ricordare "Loro" (1992) di Levan Zakareichvili E' la storia di un giovane sbandato che vive con la madre nella periferia di Tibilisi. Egli passa i giorni girovagando con gli amici alla ricerca di improbabili occasioni di lavoro. Commette alcuni piccoli furti e cede alla tentazione della droga. Arrestato in seguito alla morte per overdose di uno dei suoi amici finisce, prima, in prigione, poi, in un campo di lavoro. Dopo qualche anno esce dalla galera indurito e pronto a tutto, tanto che si mette al servizio della mafia uzbeka. Con tali premesse è ovvio che si il finale sia tragico. Il film è un interessante documento sulla progressiva caduta di valori in una fase storica segnata dall'annuncio di grandi turbolenze. E' un testo in cui a contare è più la radiografia sociale che lo stile. Quest'ultimo pesca a piene mani sia nel cinema gangsteristico occidentale, sia in quello sovietico interessato alle devianze giovanili. Un altro filone importante del cinema georgiano è quello che si ricollega alla tradizione di precise trasposizioni di noti testi letterari, utilizzati, spesso, quali metafore della situazione contemporanea. E' il caso de "Il preferito" (1991) che Michail Kalatosischwilli, nipote di Mikhail Kalatozov autore di "Quando volano le cicogne" (1957), ha ricavato, molto liberamente, dalla novella "Matteo Falcone" di Prosper Mérimée (1829). La vicenda è trasposta in Georgia durante la guerra civile che fece seguito alla Rivoluzione d'Ottobre. Il film racconta la storia di un contadino che assiste ai furori dei rivoluzionari. Gli avversari dei sovietici tentano di portarlo dalla loro parte, ma egli rifiuta, non vuole schierarsi con nessuno e pretende di continuare a vivere la sua vita di campagnolo e buon padre di famiglia anche nel turbine della guerra civile. Per questo ordina al figlio di non far mai entrare nessuno, per nessuna ragione in casa. Un giorno si presenta un ferito, inseguito dai bolscevichi. Il giovane, impietosito, lo nasconde, tuttavia quando arrivano gli inseguitori non resiste alla promessa di avere in regalo una rivoltella e consegna loro il fuggiasco, quando il padre viene a sapere della trasgressione ai suoi ordini, invoca una legge atavica sul diritto di patria potestà e uccide il ragazzo. Il film ha un significato nell'ambito della revisione dell'agiografia rivoluzionaria che esplode proprio in quegli anni. Il bilancio dell'opera, poi, è sorretto da una confezione precisa e professionalmente matura. Il dato più importante, tuttavia, è rintracciabile nella denuncia della ferocia della violenza, qualunque sia la giustificazione ideale con cui si sorregge. "Solo la morte arriva sicuramente" (1992) di Marina Tsourtsoumia è tratto dal bel racconto "Nessuno scrive al colonnello" (1961) di Gabriel García Márquez, lo stesso da cui Arturo Ripstein ricaverà il film presentato al Festival di Cannes 1999. In questo caso il testo è ambientato in Georgia, precisamente nelle regioni Est, durante i mesi della rivolta separatista abhasa. Un anziano militare attende da anni la pensione cui ha diritto. Nel frattempo vive con la moglie nella più nera miseria. Intorno ci sono solo odi religiosi e orrori di guerra. I sogni e le speranze dei due vecchi cozzano con un realtà terribile, al punto da rendere ancora più cupa la disperazione in cui sono immersi. E' un film dall'andamento molto classico, quasi tutto girato in interni e sorretto da una fotografia di grande livello. Un forte ritratto di dignità offesa nel turbine di eventi feroci. Dal 1996 in poi Dal 1993 al 1996 il cinema georgiano è assente dallo scenario dei grandi festival. La sua produzione si riduce sin quasi a scomparire sotto i colpi di una crisi economica gravissima. L'inflazione ha raggiunto il 2.000 per cento annuo (sic!), mentre il dollaro era scambiato con la moneta nazionale, il coupon, al tasso di 1.100.000 a uno (sic!). Per avere un'idea della situazione si pensi che, in questi anni, il salario medio non raggiunge i 400.000 coupon, vale a dire meno di mille delle nostre lire. Gli organismi internazionali hanno stimato che, alla metà degli anni novanta, la maggior parte della popolazione georgiana viveva sotto il livello di povertà. Negli ultimi anni la situazione è migliorata, ma ancor oggi è assai lontana dai livelli raggiunti negli anni del "socialismo reale", quando la Georgia si collocava fra le repubbliche più prospere dell'Unione Sovietica. Progettare un film, in simili condizioni, costituiva un lusso impensabile. Dal 1996 si nota qualche segnale di miglioramento, soprattutto grazie ad alcuni accordi di coproduzione con paesi occidentali, la Francia in primo piano. Una delle opere più interessanti realizzate seguendo questa strada è "Le 1001 ricette di un cuciniere innamorato" Nina Dzordzadze, una tragicommedia interpretata dall'attore francese Pierre Richard. Vi si racconta la storia, narrata in flashback sulla base di un vecchio manoscritto riemerso a Parigi nel 1995, di un famoso cuoco francese che, negli anni venti, percorre l'Europa alla ricerca di sapori nuovi. In treno incontra una giovane molto bella, se ne innamora e la segue in Georgia. Nel corso di una prima all'Opera di Tibilisi, il suo fiuto lo porta a sentire l'odore di una bomba che sta per uccidere il Presidente del paese. Lo ricompensano consentendogli di realizzare il suo sogno: aprire un ristorante tutto suo, il "Nuovo Eldorado". Il successo gli da fama internazionale e fa accorrere famosi buongustai come Winston Churchill e Fjodor Scialiapin. La situazione diventa complicata quando il paese è sovietizzato e la musa del gourmet sposa un alto funzionario della polizia segreta sovietica. Il film ha un andamento a un tempo burlesco e melanconico, inneggia al bel vivere pacifico di un tempo e piange la violenza introdotta nel nome di una rivoluzione che ha prodotto più sangue che piacere. E' opera molto ben costruita, a tratti divertente, ma cui nuoce un'interpretazione non del tutto omologa allo stille complessivo e all'impostazione della regia. Molto più interessante "Cimitero dei sogni" (1996) di Georgi Chaindrawa. Si tratta di un film sulla partecipazione alla guerra con l'Abhasia dell'attore georgiano Levan Abkhadchidzè che vi trovò la morte. Il centro del film è la denuncia dell'impreparazione con cui molti intellettuali, arruolatisi in un impeto di patriottismo, sono stati mandati a morire senza adeguata preparazione bellica e, spesso, male armati. Una perorazione antibellicista che denuncia il falso patriottismo e il nazionalismo esasperato. La denuncia della violenza della guerra costituisce una drammatica testimonianza del bagno di sangue che ha sommerso la regione fra l'indifferenza del resto del mondo. Sempre in tema di denuncia sulla stupidità della guerra, da segnalare il cortometraggio "Outsko" (indesiderabile, 1999) di Zourab Toutberidze. Alcuni soldati stanno per tendere un'imboscata ad un gruppo di nemici che si stanno riposando. Il comandante manda uno di loro ad eliminare un nemico che si è allontanando dagli altri per andare a raccogliere della legna. Il militare esegue la missione e, sulla via del ritorno sente una miriade di spari. Quando arriva al punto convenuto trova solo morti: nemici con diverse uniformi uniti in un identico destino. Il film è una piccola cosa, ma esprime assai bene la follia e la casualità che governano la violenza bellica. Sempre nel 1996 da segnalare un curioso film dall'andamento simbolico e dai tratti quasi sperimentali. Si tratta di "Miserere" di Zaza Khalvashi una metafora sull'angoscia e le turbe psicologiche causate dalla condizione della vita in Georgia nei nostri giorni. Il regista prosegue il discorso avviato nel 1990 con il suo primo film, "Ritorno a casa" in cui disegnava, attraverso la storia di una grande famiglia, l'atmosfera d'incubo e di catastrofe imminente che segnava la via del paese. Nel nuovo film l'approccio metaforico è ancor più pronunciato e la tragedia di questo popolo diventa segno universale di un'inarrestabile ventata di follia. "Il lago" di Kachaber Kikabidze è il film georgiano più recente di cui è possibile parlare. L'opera è stata realizzata nel 1998 e racconta il dramma di un ragazzo che assiste, impotente, all'uccisione del padre che è stato annegato in un lago durante la guerra civile. Lui e la madre sono costretti a trasferirsi in un'altra città, qui il giovane frequenta una scuola in cui sfoga le sue frustrazioni tentando di sottomettere i compagni. L'amicizia con un coetaneo lo convincerà a ritornare sulle sponde di quel lago, da cui è iniziato il suo dramma, per trovare un simulacro di tranquillità ed equilibrio. Il film è liberamente ispirato al racconto "L'abdicazione" di Heinrich Mann e presenta una struttura, stilistica e narrativa molto semplice, quasi elementare. In questo è possibile cogliere il segno di una difficoltà che è, a un tempo, economica e culturale. Confrontando questo film, per molti versi pregevole, con le opere che abbiamo conosciuto nella maturità del cinema georgiano o con quelle dell'inizio degli anni novanta, in particolare con i titoli di derivazione letteraria, ci accorgiamo che siamo in presenza di una vera e propria degenerazione professionale. Si notano subito una caduta nella cura delle luci, un forte deficit nella precisione della fotografia, una scarsa qualità della pellicola. Tutto questo è da ascriversi alla rovina di una civiltà, anche cinematografica, gravemente ferita dalla violenza bellica, umiliata dagli odi razziali, accecata dal fanatismo religioso. Una caduta di cui alcuni cineasti, è il caso di Kachaber Kikabidze, mostrano di essere consapevoli e, cosa particolarmente importante, di non accettare supinamente. Con lo sguardo degli altri Il discorso sul cinema georgiano sarebbe incompleto se non facessimo almeno un rapido cenno ad alcuni film che, anche se prodotti in altri paesi, hanno un riferimento preciso con la situazione del paese. Iniziamo con due bei documentari dedicati a personaggi di grande rilievo. Il lituano Ivars Seleckis ha costruito un bel reportage sulla vita e le opere di Eduard Shevardnadze: "Eduard Shevardnadze - Dal passato al futuro" (1992). Il film ricostruisce la vita e la carriera dell'ex - ministro degli esteri dell'URSS, oggi a capo della Repubblica Georgiana, attraverso materiali di repertorio, interviste ad amici e avversari. E' quello che si suole dire un buon servizio televisivo, documentato, armoniosamente assemblato e ricco di notazioni intriganti, sia sul personaggio, sia sulle vicende politiche degli ultimi anni. Il giornalista americano Ron Halloway, invece, si è rivolto al grande regista Sergej Paradžanov con un documentario che ne scandaglia l'opera e ripercorre i duri scontri che ebbe con le autorità sovietiche. L'asse del film, ("Paradžanov - Un requiem", 1994) è costituito da una lunga intervista realizzata durante il Festival di Monaco del 1988 e ricostruisce la vicenda umana e artistica di questo artista con precisione storica e acutezza critica. L'itinerario è diviso in tre parti e un requiem. Nei primi capitoli il cineasta georgiano racconta la genesi di alcuni suoi film e formula una sua teoria del realismo socialista. In ruolo importante lo ha la rievocazione delle vicende giudiziarie che ne segnarono la vita; dal primo arresto nel 1973, alla condanna a cinque anni di lavori forzati per contrabbando di opere d'arte e immoralità. Una forte campagna internazionale indusse le autorità sovietiche a liberarlo dopo quattro anni. Dopo la scarcerazione fu costretto a vivere in esilio a Tibilisi, ove sopravvisse facendo l'antiquario. Altri guai nel 1982; era successo che il regista, omosessuale dichiarato, aveva stretto una relazione con il figlio di un alto funzionario. Il giovane, pressato dalla riprovazione morale dell'ambiente in cui viveva, si uccise. Una tragedia dai connotati umanissimi che fu usata come pretesto per una nuova messa all'indice. Solo l'avvento di Gorbaciov gli consentirà un ritorno alla piena libertà. Sergej Paradžanov muore nel 1990, minato da un tumore a un polmone. Sempre nel campo del mediometraggio vogliamo ricordare un curioso film del 1999, "Con regole" di Dover Kosashvili, un georgiano immigrato in Israele che disegna un delizioso quadretto di un padre che tenta di insegnare al figlio i doveri dell'onestà in un società in cui il furto e il raggiro sono motivo di vanto. L'opera, parlata in georgiano ed ebraico, costituisce una bella e interessante testimonianza dei contrasti e della complessità che segnano la vita dello stato d'Israele. Per quanto riguarda il versante dei film di finzione quattro titoli, s'impongono sugli altri. "Mussulmano" (1995) di Vladimir Chotinenko è un testo pieno di elementi premonitori. Un reduce dalla guerra afgana ritorna convertito all'Islam. Nel piccolo villaggio di campagna in cui vive è, dapprima, oggetto di scherno e burle, poi, di una vera persecuzione che individua in lui il diverso e il nemico storico della fede e della civiltà. Un testo premonitore, dicevamo, in quanto scopre un problema, quello del conflitto etnico e religioso che diventerà uno degli assi portanti le numerose tragedie e guerre che insanguinano la fine secolo. Interessante, in particolare, l'equilibrio con cui la regia non getta le colpe su un solo versante, ma individua nell'intolleranza - politica e religiosa - la vera pestilenza dei giorni nostri. "Mussulmano" ha una collocazione geograficamente lontana dalla regione caucasica, mentre altri due film hanno per scenario questa regione. "Il prigioniero del Caucaso" (1996) di Sergej Bodrov racconta l'odissea di due carristi dell'armata rossa fatti prigionieri dai partigiani islamici. Il film non offre alcuna individuazione di luoghi e fatti, tuttavia il riferimento al conflitto ceceno e, prima ancora, a quello afgano appare evidente. L'assunto centrale dell'opera riposa sull'assurdità del conflitto, sulla gratuità delle violenze incrociate, sul dramma di uomini e donne le cui difficili condizioni di vita sono ulteriormente aggravate dal crepitare delle armi. Il tono generale è assai vicino a quello del cinema antibellicista occidentale di stampo classico. Tanto per fare un nome, a quel "All'Ovest niente di nuovo" che Lewis Milestone trasse, nel 1930, dall'omonimo romanzo di Erich Maria Remarque. In aggiunta alla perorazione umanitaria c'è un confronto lacerante fra gli orrori della guerra e la bellezza di un paesaggio arcaico, immobile del tempo. Un teatro che osserva distaccato e indifferente l'agitarsi e il sanguinare di uomini destinati a transitare senza lasciare il segno. "Posto di blocco" (1998) di un altro regista russo, Aleksandr Rogoschkin, ha molti punti in comune con il film precedente. Identico lo scenario, quello di una guerra caucasica, qui più direttamente ricondotta al conflitto ceceno. Simile l'atteggiamento fra gli uomini in armi e la serenità indifferente del paesaggio; unica, sostanziale differenza, l'accento spostato sul terreno dei rapporti umani. Una pattuglia di soldati russi arriva a dare il cambio ad altri militari a un posto di blocco posto su una sperduta strada di montagna. I giorni passano fra la noia e improvvisi pericoli, visto che i boschi circostanti sono pieni di partigiani. I militari stabiliscono uno strano rapporto con due donne, una delle quali prostituisce la sorella muta. Il prezzo è stabilito in un certo numero di pallottole. Solo alla fine scopriremo che la donna è una tiratrice scelta della guerriglia islamica e la sua ultima azione, prima di morire per lo scoppio di una granata, è uccidere il soldatino russo che aveva fornito prova di maggiore umanità verso gli abitanti della zona. Il film ha l'andamento tipico dell'opera di denuncia antimilitarista, una perorazione, questo il merito maggiore, affidata più alla crudeltà delle immagini e alla drammaticità delle sequenze, che non a concioni o a pesanti dichiarazioni d'intenti. Il senso finale è nell'insensatezza di un conflitto in cui tutti sono, a un tempo, vittime e carnefici e da cui emergono solo vinti. "La famiglia" (1998) di Rustam Ibragimbekov e Ramiz Hassanoglu Mirzoev racconta tre giorni nella vita di una famiglia di Baku, all'inizio degli anni '90. E' il momento dell'esplodere delle tensioni etniche e religiose fra armeni, abhasi, azeri e profughi dal Nagorno Karabah. L'arrivo in città dei rifugiati d'origine georgiana innesca un'atmosfera da pogrom nei confronti dei residenti di altre origini. Il film è importante come quadro delle tensioni etniche e nazionaliste nel Caucaso, prima ancora quale testimonianza di una convivenza - difficile, ma non impossibile - annientata dalla caduta dell'antico ordine imperiale moscovita. Il dato comune a tutti queste opere, non georgiane, è la denuncia delle drammatiche conseguenze dei conflitti che hanno insanguinato la regione dalla dissoluzione dell'URSS ai giorni nostri. Guerre che, purtroppo, non accennano a placarsi come dimostrano le operazioni militari in Dagestan e la parziale invasione della Cecenia da parte dell'Armata Rossa. Umberto Rossi I film di cui parliamo Film georgiani Dge (Il giorno, 1989) Regia: Lewan Glonti; sceneggiatura: Lewan Glonti; fotografia: Kacha Tscehelidse, Dawid Gudshabidse; scenografia: Gogi Tatischvilli, Wachtang Topuridse; musica: Teimuras Bakuradse; interpreti: Ilo Glonti, Gia Kankawa, Giorgi Kwawilaschwilli; nazionalità: georgiana, 16 mm; bianco e nero; durata 65 minuti. Il film racconta una giornata di una giovane che vive con i nonni: va a trovare alcuni amici, fa visita ai genitori, passeggia nelle strade di Tibilisi, sosta in un bar, va ad una festa e, la notte, spia una ragazza dalla finestra. Per difendere una ragazza finisce coinvolto in una rissa nel corso della quale lo accoltellano. Rcheyli (Il preferito, 1991) Regia: Mikhail Kalatozishvili; sceneggiatura: David Akhobadze, Mikhail Kalatozishvili dal racconto "Matteo Falcone" di Prosper Mérimée; fotografia: Archil Akhvlediani; assistente alla fotografia: M. Chidaschwili; montaggio: Dshulieta Besuaschwili; musica e suono: Surab Nadaraja; assistente al suono: D. Gwasaljia; scenografia: Tamara Potskhishvili, Giwi Magrischwili; costumi: Nato Kandelaki; trucco: Svetlana Bekadse; assistenti alla regia: L. Dshodshua, D. Baudse; interpreti: Avtandil Makharadze, Nineli Chankvetadze, Larisa Guzeyeva, Luka Khundadze, Maya Bagration, Gogi Mergwelaschwili, Leo Antadse, Guram Mgalobischwili, Pridon Guledani, Giwi Zikaradse, David Akhobadze, Nugsar Beroschwili, Gogi Morotadse, Gija Suliauri, Levan Antadze; nazionalità: Georgia; colore, 103' La Georgia nei mesi della guerra civile innescata dalla Rivoluzione d'Ottobre. Il contadino Dshua vive in modo patriarcale e rispettoso della tradizione con la moglie e il figlio undicenne Gega. Mentre porta in città alcune candele rituali, da lui stesso confezionate, è testimone degli orrori del terrore rivoluzionario, in particolare della ferocia di un cinico ufficiale e di un commissario politico fanatico. Dopo il ritorno al villaggio, alcuni controrivoluzionari cercano di tirarlo dalla loro parte. Il contadino rifiuta ogni impegno: vuole solo vivere in pace sulla sua terra rispettando la tradizione, come ha sempre fatto. Per questo ordina al figlio e alla moglie di non far mai entrare nessuno in casa. Un giorno bussa alla loro porta un "bianco", ferito e inseguito dai rivoluzionari. Impietosito il figlio lo nasconde. Quando arrivano gli inseguitori, il commissario politico capisce che il ragazzo nasconde qualche cosa. Sfruttando la passione di Giga per le armi gli promette una rivoltella se consegnerà il fuggiasco. Il giovane si lascia convincere e consegna il ferito. Quando il padre ritorna dai campi, saputo di quanto è successo, invoca un'antica legge e uccide il figlio. Ghamis Zekwa (Danza nella notte, 1991) Regia: Aleko Tsabadse; sceneggiatura: Aleko Tsabadse; fotografia: Leri Matschaidse; scenografia: Gogi Tatischwili; Musica: Awto Nazaraschwili; montaggio: Lali Kolchidaschwili; interpreti: Amiran Amiranashvili, Surab Begalishvili; nazionalità: Georgia; colore; durata: 128'. In una città industriale georgiana il cinico Moshe e la romantica Shiba sono amici e compagni di lavoro in un'acciaieria. La loro vita è una continua lotta contro la stupidità, gli arbitrii e la mancanza di scrupoli di dirigenti e traffichini vari. Maxim, in particolare, finge d'essere amico di tutti, ma tradisce chiunque alla prima occasione. Tutt'intorno ci sono vari personaggi: il mussulmano Telman, che ha appena avuto un figlio, un poliziotto che ha mandato in galera il figliastro e ora se la prende con Shiba, due immigrati vietnamiti, un vecchio. Tutto sembra normale, ma la donna non riesce a sopportare le continue ingiustizie, perde il controllo e commette un omicidio. Udzinarta Mse (Il sole dei vigilanti, 1992) Regia: Temur Babluani, sceneggiatura: Temur Babluani; musica originale: Temur Babluani; fotografia: Viktor Andriyevsky, Nugzar Nozadze; scenografia: Teimur Khmaladze, Tomaz Lomiya: suono: Vladimir Nikonov; interpreti: Elgudzha Burduli, David Kaziashvili, Lia Babluani, Eta Saatashvili, Givi Sikharulidze, Levan Pilpani, Flora Shadaniya, Lika Kavzharadze, Soso Dzhachvliani, Murtaz Zhvaniya; nazionalità: Georgia; 1992; colore; durata: 123'. Il dottor Gela sta lavorando ad un nuovo farmaco contro il cancro, ma nessuno lo prende sul serio. Lo cacciano dall'istituto di ricerca ove lavora e lo licenziano dal Pronto Soccorso in cui ha trovato un nuovo impiego. Anche la sua vita familiare è piena di guai. Suo figlio è coinvolto in una rapina, condannato e maltrattato da un secondino. Giura di vendicarsi e, una volta rimesso in libertà, arriva quasi ad uccidere il suo persecutore. Gela continua cocciutamente il lavoro di ricerca e riempie di topi il solaio di casa, per usarli come cavie. La moglie, che lo considera un fissato, rimette in libertà gli animali, sicura che, in questo modo, il marito smetterà di pensare ai suoi studi. Il dottor Gela, quasi impazzito, decide di inocularsi il medicinale, con l'aiuto del figlio penetra nella clinica in cui lavorava un tempo e tenta l'esperimento, ma usa una siringa infetta e muore. Qualche mese dopo il giovane vede in strada uno dei topi che la madre ha rimesso in libertà e sui quali il padre aveva sperimentato il vaccino. Il topo sta bene ed è particolarmente vivace. Walsi Petschorase (Il valzer del fiume Pechora, 1992) Regia: Lana Gogoberidze; sceneggiatura: Lana Gogoberidze, Zaira Arsenisvili; fotografia: Georgi Beridze; musica: Georgi Tsintsadze; selenografia: Shota Cocolasvili, Salome Alexi-Meskhisvili; interpreti: Nineli Chankvetadze, Marika Chichinadze, Guram Pirtskhalava, Tamara Skhirtladze, Nino Surguladze, Dopo Chichinadze; produttore: Alexander Sharashidze; nazionalità: Georgia, colore; durata 108'. Unione sovietica 1937. Il film segue due storie parallele. La prima è quella di una cosiddetta "moglie di un nemico del popolo" condannata all'esilio nella parte settentrionale del paese. I campi di prigionia esistenti sono troppo affollati per accogliere anche le donne non in grado di essere impiegate nei lavori forzati, così le si costringe a vagare - su treni, in nave o a piedi - nel terribile inverno russo. Sino allo sfinimento e alla morte. La seconda storia ha per protagonista una bambina di tredici anni che fugge dall'orfanotrofio, in cui era stata rinchiusa dopo l'arresto dei genitori. Fra mille difficoltà riesce a ritornare a casa, ma la trova occupata da un ufficiale del KGB. Impietosito, l'uomo le offre un riparo. E' quanto basta per decretare la sua condanna: i vicini lo denunciano e la polizia lo arresta. Adesso la piccola è nuovamente sola. Tolko smert prikhodit obyaznatelno (Solo la morte arriva sicuramente, 1992) Regia: Marina Tsurtsumiya; sceneggiatura: Viktor Dubrovsky dal racconto "Nessuno scrive al colonnello" di Gabriel García Márquez; musica originale: Sergei Shustitsky; fotografia: Igor Kozhevnikov; montaggio: Valentina Kharlashova; scenografia: Giga Lapiashvili; costumi: Mariya Mordkovich; musica: Sergej Chustitsky; interpreti: Tengiz Archvadze, Irakli Khizanishvili, Lya Elyava, B. Andronikashvili, G. Badanashvili, Eda Kakhnani, Imeda Kakhnani, Ketino Kiknadze, Nukhar Kurashvili, Mamuka Lorya, Kartlos Maradishvili, Z. Maradishvili, Lasha Okreshidze, Guram Pirikhalava, S. Toly, Niko Topuridze, G. Tsurtsumiya; nazionalità Russia, Georgia; bianco e nero; 125'. La parte orientale della Georgia, nei mesi della guerra civile per la secessione dell'Abhasia e i primi conflitti religiosi. Un vecchio militare attende da anni la pensione che gli spetta. Nessuna notizia arriva dal Ministero e il vecchio è costretto a dividere con la moglie una misera esistenza in cui, spesso, manca persino qualche cosa da mangiare. Eux (Loro, 1992) Regia: Levan Zakaryeshvili, sceneggiatura: Levan Zakaryeshvili, Ghia Badridze; fotografia: Oleg Bachnine; suono: Edicher Gheorghadze; scenografia: Tamara Potskhishvili, Ghia Lapedadze; montaggio: Lali Kolkhidashvili; musica: Tamaz Kurashvili; interpreti: Zaza Kolelishvili, Mindia Lordkipanidze, Keti Pantskhava, Matliuba Alimova; Beka Djguburia, Zviad Tavadze; nazionalità: Georgia; colore; durata: 160'. Baradze è un giovane disoccupato che vive con la madre e passa le giornate a gironzolare nelle strade di Tibilisi con un gruppo d'amici, emarginati come lui. Per passare il tempo si drogano e, per trovare i soldi necessari, commettono piccoli reati. Ogni tanto si procurano una macchina e fanno una scorribanda sino alle spiagge del Mar Nero. In seguito alla morte per overdose di uno di loro, il giovane è arrestato, condannato e inviato in un campo di lavoro. Qualche anno dopo, quando lo scarcerano, è ormai diventato un criminale incallito, duro, pronto a tutto; da qui mettersi in combutta con la mafia uzbeka il passo è davvero breve. Express-Informatsia (Informazione rapida, 1993) Regia: El'dar Schengelaja; sceneggiatura: Ravaz Cheishvili; fotografia: Lomer Achvlediani; montaggio e suono: Gari Kuntsev; musica: Jano Kachidze; scenografia: Dimitri Eristavi, Tschakaia Kukuri, Medea Bakradze; coordinamento: Martin Buchhorn; interpreti: Zurab Kipshidze, Nana Sonia, Mikheil Yashdze, Tamaz Kurashvili, Teimuraz Chircadze; produttore: Alexandre Scharashidze; nazionalità: Georgia, Germania; colore; durata: 103'. La capitale della Georgia negli anni di Gorbacëv. Il direttore di una fabbrica in cui si producono succhi di frutta è accusato pubblicamente di corruzione. La televisione monta un vero e proprio scandalo, seguito in diretta da una trasmissione inventata lì per lì, sul fatto che alcune persone sono state intossicate dallo sciroppo di rosa canina prodotto dalla fabbrica. Parenti e amici del perseguitato cercano invano solidarietà fra dirigenti politici e pezzi grossi di vario tipo. Tutto è inutile e fallisce miseramente anche il tentativo di trovare appoggi nell'opposizione anticomunista e nazionalista. Il manager è condannato e imprigionato. Potrà uscire solo quando il paese sarà in preda al caos e i conti si regoleranno con le armi alla mano. Les 1001 recettes d'un cusinier amoreux (Le 1001 ricette di un cuoco innamorato, 1996) Regia: Nana Dzhordzadze; sceneggiatura: Andre Graill (dialoghi francesi), Irakli Kvirikadze; musica originale: Goran Bregovic; fotografia: Georgi Beridze; montaggio: Guili Grigoriani, Vessela Martschewski; scenografia: Teimur Khmaladze, Vakhtang Rurua; suono: Claude Bertrand, François de Morant; interpreti: Pierre Richard, Micheline Presle, Nino Kirtadze, Timur Kamkhadze, Jean-Yves Gautier, Ramaz Chkhikvadze, Aleksandr Baluyev, Elgudzha Burduli, Danielle Darrieux, Vladimir Ilijn, Marina Kakhiani, Kakhi Kavsadze, direttore di produzione: Marc Barbault; controllo della produzione: Marie-Pierre Duboscq; produttori esecutivi: Temur Babluani, Thomas Baumeister; produttore: Marc Ruscart; nazionalità: Georgia, Francia; colore, durata: 100'. E' la storia di Pascal Ichak, un grande cuoco - viaggiatore francese, che si innamora di una principessa georgiana, nei primi anni venti. Tutto va bene fino al omento in cui la rivoluzione sovietica apre la via della Georgia all'Armata Rossa. Le cose si complicano quando la bella diventa la moglie del capo della polizia segreta sovietica. Tutta la storia è raccontata come un flashback nato da un manoscritto ritrovato a Parigi nei giorni nostri. Otcnebebis Sasaplao (Cimitero dei sogni, 1996) Regia: Georgi Chaindrawa; sceneggiatura: Georgi Chaindrawa, Irakli Solomonaschvili; fotografia: Georgi Shandrawa, Michail Magalaschvili; montaggio: Georgi Shandrawa, Leila Muchigulaschvili; scenografia: Zaza Tsitsischvili; musica: Niazi Diasamidze; suono: Gari Kunzev; interpreti: BachoBachukaschvili, Georgi Nakaschindze, Avtandil Schitraladze, Tamaz Berejiani, Lascha Esebua, Surab Gorgadze, Beka Urushadze; produttore: Georgi Chaindrawa; nazionalità: Georgia; colore; durata: 90'. Molti artisti e intellettuali, spinti da un forte patriottismo, si sono offerti volontari per l'assurda guerra contro i secessionisti dell'Abhasia. Tra loro c'era anche il celebre attore Levan Abkhadchidzè che fu presto vittima degli scontri. Egli non aveva ricevuto quasi nessun addestramento e non conosceva le cose belliche. Il film, con un taglio quasi documentaristico, racconta la fine di questa generazione d'idealisti traditi. Miserere (Miserere, 1996) Regia: Zaza Khalvashi; sceneggiatura: Zaza Khalvashi, Lasa Imedasvili; fotografia: Guram Sadzaglisvili; musica: Josif Bardanasvili; montaggio: Leila Aslani; interpreti: Zurab Sturua, Nanana Devitasvili, Nino Kavsadze, Lali Meschi; produttore: Servet Verdradze; nazionalità: Georgia, bianco e nero; durata: 80' Un film dai tratti sperimentali a proposito dei "demoni che vivono dentro e tra noi ". La dichiarazione del regista prosegue invitandoci a vergognarci delle cose feroci che facciamo a noi stessi e agli altri. Ozero (Il lago, 1998) Regia: Kachaber Kikabidze; sceneggiatura: Kachaber Kikabidze, ispirata al racconto ; fotografia: Džoni Kurašvili; musica: Gio Cinciadze; montaggio: Lali Kolchidadašvili, Leila Aršlani; produttore: Kachaber Kikabidze; interpreti: Dimitrij Švelidze, Arkli Mšvildadze; Natis Gogocuri; Alina Nozadze, Guram Pircchalava, Nino Ležava, Zurab Begališvili; Nino Koberidze; nazionalità: Georgia; colore; durata: 87'. La Georgia durante la recente guerra civile. Zura assiste impotente all'uccisione del padre, annegato in riva a un lago. Lui e la madre sono costretti a trasferirsi in un'altra città ove vivono in miseria. Il ragazzo frequenta una nuova scuola e qui si rifà delle frustrazioni di cui è vittima angariando i compagni. Diventa un vero e proprio tiranno in miniatura. Solo l'affetto di un compagno di classe lo riporterà alla ragione. Alla fine Zura trova il coraggio di ritornare in riva a qual lago in cui è stato annegato il padre. Forse ora potrà guardare dentro a se e al mondo che lo circonda con maggiore lucidità. Ahk Thendéba (L'alba inizia qui, 1998) Regia di Zaza Ourouchadzé; sceneggiatura: Amiran Tchitchinadze, Zaza Ourouchadzé; fotografia: Igor Amassiaski; scenografie: Guia Laperadze; montaggio: Neli Krisstessachvili; musica: Guio Tsintsadze; suono: Zourab Nadaraia; interpreti: Rourab Begalichvili, Gouram Pirskava, Nino Lejava, Nino Koberidze, produzione: onsortium Georgian Film; colore; durata: 88'. Beka, capo della sicurezza e delfino del Presidente della Repubblica, è completamente dedito al suo lavoro. Il suo potere è molto grande e il suo futuro assicurato. Sua moglie attende un bimbo. Quando il piccolo nasce i medici dell'ospedale, gli dicono che non è sopravvissuto. Una serie di contraddizioni lo inducono a sospettare che gli sia stata nascosta qualche cosa. In poco tempo scopre che, complice sua moglie, il bambino, affetto da un male inguaribile che lo avrebbe stroncato in pochi mesi, è stato affidato ad un orfanotrofio. A prendere la decisione è stato lo stesso Presidente della Repubblica che non voleva un collaboratore distratto da problemi personali. Beka penetra nottetempo nell'edificio in cui è custodito il figlio e lo rapisce. Ridotto come un criminale in fuga si nasconde, in modo casuale presso una comunità cristiana che migra periodicamente da un luogo all'altro. Qui trova pace fra le braccia si una specie di santa contadina. Le condizioni del bimbo peggiorano ed è dato per morto. Disperato il padre tenta di annegarsi stringendo il piccolo fra le braccia. All'ultimo momento il bimbo inizia ad urlare. Outsko (L'indesiderabile) Regia: Zourab Toutberidze; sceneggiatura: Zourab Toutberidze; fotografia: J. Kristessachvili; scenografia: N. Tarielachvili; suono: J. Devnozachevili; produzione: O. Souladze; contatti: Otar Ioseliani 13, rue du Faubourg Montmatre, 75009 Parigi; colore; durata: 6' 20''. Un gruppo di militari sta tendendo un'imboscata ad alcuni nemici intenti a riposarsi. Il comandante manda un uomo ad eliminare un soldato avversario che si e allontanato per raccogliere legna. Compiuta la missione, il militare sente una serie di raffiche di mitra. Ritornato al punto di partenza scopre che nessuno e sopravvissuto. OTAR IOSELIANI Et la lumière fut (Un incendio visto da lontano, 1989) Regia: Otar Ioseliani; sceneggiatura: Otar Ioseliani; fotografia: Robert Alazraki, operatore: Muriel Enderson; suono: Alix Comte; assistente alla regia: Jacques Arhex; scenografo: Yves Brover; costumi: Charlotte David; trucco: Eric Pierre; musica: Nicolas Zourabichvili; suono: Pierre Tucat; interpreti: Sigalon Sagna, Saly Badji, Binta Cissé, Marie-Christine Dieme, Fatou Seydi, Alpha Sane, Abdou Sane, Souleimane Sagna, Marie-Solange Badiane, Moussa Sagna, Ouissman Vieux Sagna, Salif Kambo Sagna, Fatou Mounko Sagna, Oswalda Olivera, Bouba Sagna; nazionalità: coproduzione Francia, Germania, Italia; lingua: francese; colore; durata: 106'. Un villaggio africano nel cuore della foresta è abitato da un popolo felice la cui esistenza è regolata da leggi ataviche. La vita scorre calma segnata dai piccoli fatti di tutti i giorni: qualche lite, un divorzio, la nascita di una nuova famiglia. Improvvisamente arrivano i portatori della civiltà: conducenti di grandi camion, guardie forestali, un esercito di taglialegna. Le presenze estranee aumentano di giorno in giorno, sconvolgendo la vita degli abitanti il borgo. Alcune ragazze trovano un pneumatico nel fiume e scoppia una lite per il suo possesso. Ad un certo momento è un'intera tribù sconosciuta ad attraversare il villaggio. Dopo poco si scopre che al posto del villaggio dovrà nascere una segheria. Gli abitanti sono costretti ad andarsene e le capanne sono date alle fiamme. E' passato qualche tempo, quasi tutti sono andati a vivere in città, c'è chi vende giornali e chi statuette fatte in serie. Solo una coppia decide di ritornate per ricostruire una capanna. La chasse aux papillons (Caccia alle farfalle, 1992) Regia: Otar Ioseliani; sceneggiatura: Otar Ioseliani; fotografia: William Lubtchansky; montaggio: Otar Ioseliani, Jocelyne Ruiz, Nathalie Alquier, Ursula West; suono: Anne- Marie L'Hote; missaggio del suono: Ekaterina Evans; musica: Nicholas Zourabichvili; scenografia: Emmanuel De Chauvigny; assistente alla regia: Claire Lusseyrand; interpreti: Mathieu Amalric, Jean-Baptiste Arhex, Alexander Askoldow, Irene Babet, Pierette Pompom Bailhache, Narda Blanchet, Emile Breton, Yannick Carpentier, Vincent Darasse, Emmanuel De Chauvigny, Annie De La Celle, Anne-Marie Eisenschitz, Viola Hell, Franziska Jablonskaja, Swetlana Lafond, Alexandra Liebermann, Maimouna N'Diaye, Irena Oberberg, Lilia Ollivier, Victor Oshiro, Sacha Piatigorsky, Liouba Protassieff-Ballu, Bella Roit, Bronia Roit, Natascha Sikorsky, Indira Solowiewa, Tamar Sombart, Thamara Tarassaschvili, Alexandre Tscherkassoff, Gouram Tsouladze, Françoise Tsouladzé, Sylvie Van den Elsen, Leonard Vindry, Kenji Watanabe; nazionalità: coproduzione Francia, Germania, Italia; lingua: francese; colore; durata: 115'. La Francia dei nostri giorni. Due vecchie signore vivono in un enorme castello. Il fabbricato ha un aspetto decrepito, ma è ancora pieno d'oggetti di valore. Le due anziane dame sono, nonostante l'età, curiose, vivaci ed energiche. Passano le giornate ad ascoltare le notizie che provengono dal mondo esterno e che radio e televisione rilanciano ogni minuto. E' un lungo catalogo di guerre, violenze, catastrofi, delitti, genocidi il cui ritmo sembra in continuo aumento. Le due anziane sono considerate una sorta di anima del paese che circonda il castello. Tutti le stimano, ma nessuno le protegge seriamente dalle ruberie di antiquari avidi o dalle brame di alcuni speculatori giapponesi che vorrebbero trasformare il castello in un albergo di lusso. Anche i nipoti, desiderosi di entrare in possesso della loro eredità, non fanno nulla per aiutarle. I giorni passano e l'ora della fine si avvicina. Quale sorte attende il patrimonio che le due donne hanno custodito con tanto amore? Seule, Georgie (Sola, Georgia, 1994). Regia: Otar Ioseliani; sceneggiatura: Otar Ioseliani; fotografia: Nougsar Ercomaïcivili; produzione: Francia; documentario; nazionalità: Francia; lingua: francese; video; colore; durata: 240'. Documentario di quattro ore sulla turbolenta storia della Georgia. Il film è diviso in tre parti. La prima s'intitola "Preludio" e traccia la storia di questa nazione nel 18° secolo. Nel 1801 la Russia si annette la Georgia e gli zaristi tentano in ogni modo di russificare i costumi e la cultura della regione. In questo modo sono inferti colpi mortali a una cultura antica che aveva il suo alfabeto, le sue tradizioni letterarie e filosofiche, le sue canzoni e il suo… vino. La seconda parte è intitolata "Tentazione" e riguarda un periodo che inizia con la Rivoluzione d'Ottobre ed è segnato da periodica repressione, espulsione di abitanti, rigido collettivismo. Solo dopo la salita al potere di Gorbaciov e il lancio della perestrojka, la Georgia ha la possibilità di riprendere il cammino verso l'indipendenza nazionale e culturale. La terza parte s'intitola "Processo" e vi compaiono le prove delle violenze esercitate sulle minoranze oppresse. Con la dichiarazione d'indipendenza della Georgia, il movimento separatista dell'Abhasia scatena una sanguinosa guerra civile che sconvolge il paese di cui il resto del mondo ha immagini scioccanti quanto politicamente ambigue. A questo punto il regista passa a uno stile quasi giornalistico e tenta di analizzare politicamente i fatti tenendo sempre presente una precisa prospettiva storica. Brigands, chapitre VII (Briganti, 1996) Regia: Otar Ioseliani; soggetto, sceneggiatura e montaggio: Otar Ioseliani; musica originale: Nicholas Zourabichvili; fotografia: William Lubtchansky; montaggio: Marie-Agnès Blum, Otar Ioseliani, scenografia: Emmanuel De Chauvigny, Jean Michel Simonet, Yelena Zhoukova; costumi: Cori D'Ambrogio, Lyudmila Gajntseva; suono: Florian Eidenbenz; missaggio del suono: Elvire Lerner; collaborazione artistica: Nicholas Fournier, Rita Ioseliani; interpreti: Amiran Amiranashvili, Alexi Djakeli, Lyudmila Gajntseva, Dato Gogibedachvili, Keli Kapanadze, Niko Kartsivadze, Nino Ordjonikidze, Guio Tzintsadze; produzione: Martine Marignac; nazionalità: Francia - Russia - Italia; lingue: russo - georgiano - francese; colore; durata 129'. Vano è il re di uno staterello bello, ricco e invidiato. Egli passa il tempo a fare la guerra. La sua corte è piena di cortigiani scontenti, ipocriti oltre ad un buon numero di traditori. La regina Eka si annoia e la cintura di castità che le è stata imposta serve poco a calmare le sue voglie. La favorita del re, Lia, è stata vinta dal sovrano in battaglia. Sarebbe un'ottima regina di riserva, ma non ha mai perdonato al suo vincitore d'averla violentata, per questo è alla ricerca dell'occasione per ucciderlo. Una storia parallela ha per protagonista un altro Vano, un ladro bellissimo, e un'altra Eka, una bella rivoluzionaria. Dopo la vittoria della rivoluzione, i due inaugurano un nuovo corso che, come il precedente alimenta scontenti, gelosia, tradimenti. Una sera, durante una festa, inebriati dal vino alcuni si lasciano andare a commenti poco graditi ai nuovi uomini di potere, che li fanno arrestare. In poche parole tutto è come prima, allora Vano decide di andare a vivere in un paese straniero dove, si dice, la vita sia molto più bella. Adieu plancher des vaches (Addio Terraferma, 1999) Regia: Otar Ioseliani; sceneggiatura, dialoghi e montaggio: Otar Ioseliani; fotografia: William Lubtchansky; scenografia: Emmanuel De Chauvigny; musica: Nicolas Zurabichvili; interpreti: Mathieu Amalric, Philippe Bas, Stephanie Hainque, Otar Ioseliani, Lily Lavina, Joachim Salinger, Nico Tarielashvili; nazionalità: Francia; colore; durata: 117'. Nicolas ha una ventina d'anni e appartiene ad una famiglia ricca, diretta da sua madre, un'importante donna d'affari, il cui marito è un alcolizzato cronico. Il ragazzo passa le giornate nella città vicina dove fa, all'insaputa dei genitori, il lavapiatti in un ristorante. I suoi amici sono barboni, alcolizzati ed emarginati vari. Le ragazze che incontra sono spesso belle, ma nessuna s'interessa a lui. Una sera tenta una rapina ad un supermercato e finisce in prigione. Film sul Caucaso Eduard Schewardnadze - Iz Proschlogo V Buduschtscheje (Eduard Schevernadze - Dal passato al futuro, 1992) Regia: Ivarss Seleckis; sceneggiatura: Boris Dobrodeyev, Teimuraz Mamaladze; fotografia: Kalvis Zalcamanis; montaggio: Maija Selecka; suono: Igor Jakovlev; musica: Ivars Vigners; nazionalità: Russia - Lettonia; documentario; colore; durata: 108'. Documentario sulla carriera politica d'Eduard Shevardnadze che è stato Segretario Generale del partito comunista georgiano, ministro degli esteri dell'URSS nel periodo gorbacioviano e ora è Presidente della Repubblica di Georgia. Il film si basa su documenti d'archivio, sequenze d'attualità e su una serie d'interviste a parenti, amici e avversari politici del personaggio. Parajanov - A requiem (Parajanov - Un requiem, 1994) Regia e sceneggiatura: Ron Halloway; fotografia: Thonas Schwan; suono in presa diretta: Markus Stoffel; musica: Urmuli Folklore; montaggio: Monika Schindler, Walter Vögele; consulenza: Gordian Maugg; produttori: Dorothea Halloway, Frank Löprich, Katrin Schlösser, George Gund III; nazionalità: tedesca; documentario; anno: 1994; colore e bianco e nero; formato: 16mm; durata 57'. E' un documentario basato sia su inserti di altri reportage, frammenti di film, foto e su una lunga intervista con il regista georgiano, registrata nel 1988, in occasione del Festival di Monaco. Il film è formato da un'introduzione, tre parti e un requiem. Nell'introduzione Sergei Parajanov racconta la sua vita, dagli anni all'Istituto Statale di Cinematografia di Mosca (VGIK), alle prime produzioni negli studi di Kiev. Un ruolo importante vi ha Aleksandr Dovženko che difende con passione il suo primo film, "Andrieš", girato come saggio di diploma. Il regista ripercorre, nella prima parte, gli inizi della carriera, facendosi guidare da una mostra di suoi disegni, esposti in una galleria di Monaco. Lo stesso regista propone, nella seconda parte, una personale interpretazione del realismo socialista e racconta come ne aggirò i canoni durante il periodo che lavorò negli studi di Kiev. La terza parte è dedicata alle sue vicende giudiziarie, dal primo arresto nel 1973, la messa al bando delle sue opere e il lungo esilio a Tibilisi. Davanti all'approssimarsi della fine, il requiem rende omaggio a una vita d'artista spesa fra persecuzioni ed esplosioni di creatività. Musulmanin (Mussulmano,1995) Regia: Vladimir Khotinenko; sceneggiatura: Valeri Zalotukhi; musica originale: Aleksandr Pantykin; fotografia: Aleksei Rodionov; montaggio: Svetlana Tarik; scenografia: Aleksandr Popov; costumi: Regina Khomskaya: suono: Sergei Sashnin; produzione: Vladimir Khotinenko, Vladimir Repnikov; interpreti: Yevgeni Mironov, Aleksandr Baluyev, Nina Usatova, Ivan Agafonov, Ivan Bortnik, Vladimir Bykharyov, Yevdokiya Germanova, Vladimir Ilijn, Leonid Okunyov, Aleksandr Peskov, Varvara Shabalina, Valentina Svetlova, Sergei Taramayev, Pyotr Zajchenko, Sergei Skripka; nazionalità: russa; lingua, russo; colore; durata: 110' Un giovane soldato, che ha trascorso sette anni in Afganistan ed è diventato un devoto mussulmano, ritorna al suo villaggio natale, in Russia. I familiari e i vicini lo trattano come un estraneo. Durante la sua assenza, il padre si è impiccato, il fratello è stato incarcerato e l'ex fidanzata è diventata una donna dalla dubbia moralità. Gli abitanti del villaggio sono in preda all'alcolismo e il sindaco sta vendendo la terra migliore ai nuovi ricchi. Il reduce diventa, così, l'unica persona sobria e laboriosa della comunità. Per questo e a causa della sua fede religiosa è perseguitato da tutti, compresi i suoi familiari. Kavkazskij plennik (Il prigioniero del Caucaso, 1996) Regia: Sergei Bodrov; sceneggiatura: Arif Aliyev, Sergei Bodrov, Boris Giller; musica originale: Leonid Desyatnikov, S. Naugolnykh; a soli di clarinetto, Radzhab Radzhabov a soli di armonica; fotografia: Pavel Lebeshev; montaggio: Alan Baril, Olga Grinshpun, Vera Kruglova; scenografia: Valeri Kostrin; decoratore: Igor Morozov; costumi: Vera Romanova; trucco: Anna Mokasheva; direttore di produzione: Dmitrii Gavrishchenko, Valerii Tarmosin; suono: Yekaterina Popova-Evans; musica: Mina Blank; operatori: N. Brusov, S. Naugolnykh, O. Zhuravlyov; macchinisti: Anatoli Gerasimov, Andrei Kolotushkin, D. Kolotushkin, Sergei Skripka; interpreti: Oleg Menshikov, Sergei Bodrov Jr., Susanna Mekhraliyeva, Dzhemal Sikharulidze, Aleksandr Bureyev, Valentina Fedotova, Aleksei Zharkov, Pavel Lebeshev; produttori: Sergei Bodrov, Carolyn Cavallero, Boris Giller, Eduard Krapivsky; produzione: Russia, Kazakistan; nazionalità: Russia; lingua: russo; colore; durata 95'. Nel Caucaso infuria la guerra. Due soldati russi feriti, unici superstiti di un'imboscata, sono catturati da un partigiano ceceno che spera di scambiarli con suo figlio, caduto in una retata dei militari russi. La madre di una dei prigionieri arriva nella regione per cercare di convincere le autorità militari a fare lo scambio. L'operazione diventa impossibile allorché il prigioniero è colpito a morte durante un tentativo di fuga in massa dal carcere in cui è rinchiuso. Anche i prigionieri dei partigiani islamici cercano di scappare: uno è ucciso, l'altro nuovamente catturato. La figlia del capo partigiano s'innamora del prigioniero che, ora, è rinchiuso in una buca profonda. Il vecchio decide di ucciderlo per vendicare il figlio. Blockpost (Posto di blocco, 1998) Regia: Aleksandr Rogozhkin; sceneggiatura e storia: Aleksandr Rogozhkin; musica: Vladimir Panchenko; fotografia: Andrei Zhegalov; scenografia: Vladimir Kartashov; montaggio: Julija Rumjanceva, Sergej Gusinskij; suono: Anatolij Gusinskij, Igor Terechov; costumi: Tatjana Doroshkina; interpreti: Roman Romantsov, Kirill Ulyanov, Ivan Kuzmin, Denis Kirillov, Egor Tomoshevsky, Yuri Grigoriev, Denis Moiseev, Alexander Ivanov, Andrei Krasko, Aleksei Buldakov, Zoya Buryak, Sergei Guslinsky; produzione: Konstantin Ernst, Sergei Selyanov; nazionalità: Russia; lingua: russo; colore; durata 95'. Oggi, da qualche parte nel Caucaso. La regione è sconvolta da conflitti multipli che non coinvolgono solo la Cecenia. Durante un rastrellamento tre soldati russi hanno causato la morte di un ragazzo del luogo, saltato su una mina che i militari avevano nascosto su un sentiero. Tutti gli abitanti del villaggio inscenano una manifestazione contro i militari. Nel corso della protesta la madre del morto spara su un poliziotto e i tre, presi dal panico, la uccidono. Il comando, per punizione, li manda in un posto di blocco isolato, continuamente insidiato dalle fucilate dei cecchini. Qui incontrano due sorelle, una delle quali muta. Quella che parla conduce le trattative per prostituire l'altra; il prezzo è stabilito in un certo numero di cartucce. Solo alla fine si scoprirà che la donna è una tiratrice scelta della guerriglia islamica. La sua ultima azione, prima di morire per lo dallo scoppio di una granata, è uccidere il soldatino russo che ha fornito prova di maggiore umanità verso gli abitanti della zona. Eem Hukin (Con regole, 1998) Regia: Dover Koshashvili; sceneggiatura: Dover Koshashvili; fotografia: Ze'evik Arazi; montaggio: Amir Ben-Sira, Yael Perlov; scenografia: Zvi Friedmann; interpreti: Alon Abutbul, Rivka Michaeli, Mari Ovinov; produzione: Konstantin Ernst, Sergei Selyanov; nazionalità: Israele; lingua: ebraico, georgiano; formato: 16 mm; colore; durata 36'. Zaza, figlio di una famiglia georgiana da poco immigrata in Israele, ruba del denaro dal cassetto dei genitori per comprarsi alcune figurine di cui fa collezione come gli altri bambini. Suo padre lo scopre e cerca di fargli confessare il furto. Aila (La famiglia, 1998) Regia: Rustam Ibragimbekov, Ramiz Hassanoglu Mirzoev; sceneggiatura: Rustam Ibragimbekov; fotografia: Valerij Kerimov, Fikret Askerov; montaggio: Nissachanum Hadschieva; suono: Assad Assadov; musica: Jafar Aliev; scenografia: Shamil Nadschfzade; effetti speciali: Vagif Bagirov; costumi: Tatjana Amirova; trucco: Berta Rogova; assistenza alla regia: Adyl Ismailov; interpreti: Gasanaga Turabov, Sijavusch Kerimi, Svetlana Metkina, Rafiq Aliev, Tachmina Mamedova, Natalja Tagieva, Mechriban Zaki, Djangir Mechtiev, Fuad Poladov, Adyl Guliev, Anatolij Asbel, Tatjana Gross, Mabud Mageramov, Vidali Aliev; produttori: Rustam Ibragimbekov, Sijafat Abbasov, Michail Litvak; produttore esecutivo: Arif Safarov; nazionalità: Azerbaigian, Russia; colore; durata: 95'. Tre giorni nella vita di una famiglia di Baku, all'inizio degli anni '90. L'atmosfera cittadina è segnata dall'arrivo in massa dei rifugiati azeri provenienti dall'Armenia e dal Nagorno Karabah. Altre turbolenze giungono dalle dimostrazioni nazionaliste che si moltiplicano in vista della fine dell'URSS. Nonostante queste tensioni lo zio Ismail, vecchio comunista in buona fede, tenta di evitare con qualsiasi mezzo la frantumazione della sua famiglia, nel cui seno sono presenti diverse nazionalità. Egli, inoltre, vorrebbe anche dare ospitalità a un profugo, suo lontano parente. Le tensioni che questa proposta provoca nel seno della famiglia, durano tre giorni al termine dei quali il vecchio muore, dopo aver verificato che i valori di un tempo sono stati abbandonati da tutti e che la famiglia si è irrimediabilmente dissolta. Lo stesso ordine sociale è diventato carta straccia. La situazione è degenerata al punto che uno dei familiari traffica in opere d'arte statali in combutta con la Mafia. |