Cinema europeo fra le due guerre
TITOLO: Cosa
succede nel vecchi continente negli anni del trionfo industriale di
Hollywood? Data: 8/1/2001 |
Cinema europeo negli anni del regno di
Hollywood Riflettere sul cinema dell'Europa Occidentale, fra la nascita
del sonoro e la seconda guerra mondiale, significa, prima d'ogni altra
cosa, dividere il campo d'analisi in due parti. Sono gli anni in cui il
potere di Hollywood si afferma come punto di riferimento mondiale, mentre
il quadro del vecchio continente assume tratti contrapposti. Su un
versante ci sono i regimi autoritari, sull'altro le democrazie
parlamentari. Diciamo subito che queste ultime non costituiscono la
maggioranza. Rientrano in questo campo, seppur con situazioni molto
diverse: Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Cecoslovacchia, Scandinavia,
Svizzera, Austria (sino al 1938). Sul versante opposto ci sono i paesi
retti da regimi dittatoriali, quasi tutti d'ispirazione nazionalista o
nazifascista. Sono: Austria (dopo il 1938), Portogallo (dal 1926), Spagna
(dopo la guerra civile 1936 - 39), Italia (dal 1922), Germania (dal 1933),
Ungheria (dal 1920), Grecia (dal 1935), Polonia (fra il 1926 e il 1935).
Differenze che, assieme alle peculiarità sociali, economiche e culturali
di ciascun territorio, influenzano profondamente anche il cinema.
Nell'area delle dittature prevalgono, quali valori di riferimento, il
nazionalismo, la propaganda bellica, il culto dell'agiografia storica
quale giustificazione del presente, l'esaltazione religiosa. Quest'ultima
è particolarmente presente nelle cinematografie iberiche. Qui l'appoggio
fornito dalla chiesa cattolica, all'ascesa al potere e al consolidamento
dello stesso, è ripagato da Franco e Salazar anche con il tentativo di
varare un cinema di propaganda religiosa legato al peggior
tradizionalismo. In Spagna, prima della guerra civile, il cinema aveva
conosciuto una certa fioritura intellettuale, sorretta da quella che sarà
definita "la generazione del 1927". In questo quadro Luis
Buñuel crea il primo cineclub (1928) e, nel 1932, dirige quel capolavoro
di denuncia sociale che è "Las Hurdes", documento straziante
delle misere condizioni in cui vivono gli abitanti dell'Estremadura. Il
film ebbe un destino singolare. Censurato e proibito quando fu realizzato,
sarà riscoperto negli anni del franchismo, ribattezzato "Tierra sin
pan" (Terra senza pane) e sfigurato da un commento finale che
segnalava come quelle fossero le condizioni del paese prima del trionfo
del nuovo regime che, invece, aveva posto fine a tanta miseria e degrado.
Davvero un bello scherzo per l'anarchico "Don Luis"! In generale
il cinema spagnolo del periodo prefranchista mostra una predominanza di
commedie leggere, alcune delle quali ottengono un consistente successo di
pubblico. Lo testimoniano gli ottimi incassi raccolti dal musical "La
verbena de la paloma" (La verbena della colomba, 1935) di Benito
Perojo e dalla commedia "Morena clara" (Bruna chiara, 1936) di
Floriàn Rey, due cineasti che aderiranno al franchismo e che, durante la
guerra civile, emigreranno in Germania. La guerra scatena una vera marea
di film militanti. Fra il 1936 e il 1939 si contano 25 lungometraggi e 350
documentari, cifre considerevoli per una nazione preda della guerra civile
e spaccata in due. Fra questi film politicamente impegnati ve ne sono
anche di curiosi. E' il caso dei film anarco - sindacalisti: "Nuestro
culpable" (Il nostro colpevole, 1937) di Fernando Mignoni, "Barrios
bajos" (Quartieri bassi, 1937) di Pedro Puche, "Aurora de
esperanza" (Aurora di speranza, 1938) di Antonio Sau, "!No
quiero…no quieto!" (Non voglio… non voglio, 1938) di Francisco
Elias. Con la vittoria del franchismo il cinema è affidato al controllo
della commissione per la propaganda dislocata presso il Ministero
dell'Interno e sottoposto a doppia censura, sulle sceneggiature e sulle
opere finite. Bastano queste poche informazioni per segnalare quanto il
clima sia cambiato. I modelli diventano le cinematografie italiana e
tedesca. Lo stesso Caudillo scende in campo, scrivendo il soggetto del
film "Raza" (Razza, 1942), che sarà diretto da Josè Luis Saenz
de Heredia. Un cinema razzista, bigotto e nazionalista, quasi totalmente
assistito dallo Stato, anche se, formalmente, la produzione resta
un'iniziativa privata. In questo si nota una dominanza, come vedremo, più
del modello italiano che di quello germanico. In Portogallo la tendenza
isolazionista è accentuata dal salazarismo che, in modo ancor più spinto
degli altri totalitarismi europei, tende a rinchiudere il paese nei suoi
angusti confini, guardando con sospetto ad ogni intrusione dall'esterno.
In questo periodo il cinema lusitano è un miscuglio di commedie
popolaresche o rievocazioni di un glorioso passato, più immaginario che
reale. Fanno parte del primo gruppo film come "A Aldeia da Roupa
Branca" (Il villaggio della biancheria bianca, 1938) di Chianca de
Garcia, "O pai tirano" (Il padre tiranno, 1941) d'Antonio Lopes
Ribeiro. Tipico del secondo gruppo è "Bocage" (1937) di Leitao
de Barros. Ben più interessante la situazione italiana. Quanto avviene a
Roma, infatti, segnala due punti molto importanti. Il primo riguarda la
precedenza del fascismo sugli altri regimi dittatoriali europei. Benito
Mussolini diventa primo ministro nell'ottobre del 1922 e trasforma il suo
governo in dittatura fra il 1924 e il 1926. La sua tirannia dura sino al
luglio del 1943, con la grottesca appendice della Repubblica Sociale
Italiana (1943 - 45), un protettorato su alcune regioni dell'Italia
settentrionale esercitato grazie alla protezione dell'esercito tedesco.
Questo significa che, anche da un punto di vista cinematografico, il
fascismo costruì il modello più completo di apparato funzionale al
regime. Lo stesso Hitler dichiarò in più di un'occasione di aver preso
esempio dal "camerata" italiano e questo, purtroppo, non solo in
fatto di film. Il secondo elemento interessante è che le basi della
politica cinematografica del fascismo hanno due poli d'attenzione: il
modello produttivo Hollywoodiano e quelli del cinema rivoluzionario russo.
N'è un esempio il complesso produttivo di Cinecittà, inaugurato nel
1937, dopo essere stato edificato, a tempo di record, sulle ceneri di
alcuni vecchi stabilimenti misteriosamente andati a fuoco. Il progetto era
del direttore generale per la cinematografia Luigi Freddi e doveva
costituire una sorta di "Hollywood sul Tevere", come fu
annunciato più volte. Lo stesso Freddi aveva pensato l'intero settore
cinematografico sulla base dell'esperienza fatta nel corso di un lungo
viaggio negli Stati Uniti. La cosa non funzionò perché i produttori
fecero resistenza e costrinsero il Duce ad allontanare il potente
funzionario. Si comportarono in questo modo non per spirito antifascista,
ma perché gelosi della libertà di fare affari e arricchirsi lontano da
occhi indiscreti. Ne nacque una sorta di baratto: la produzione avrebbe
sfornato opere non contrarie al regime, i pochi film d'aperta propaganda
erano andati incontro a rovinosi fallimenti, mentre lo Stato avrebbe
sovvenzionato generosamente il settore. Il meccanismo individuato fu
quello degli aiuti proporzionali all'ammontare degli incassi ottenuti in
sala. In questo modo il regime si garantiva una cinematografia conformista
e impegnata nella ricerca del consenso del grande pubblico, mentre i
produttori vedevano ulteriormente rimpinguati i loro guadagni. Fu il
trionfo di un cinema leggero, comico, spensierato, che aveva poco a che
fare con i problemi del paese. I film drammatici ebbero scarsa fortuna,
sia per la riluttanza del regime a mostrare qualsiasi forma di disordine,
sia perché si temeva che attraverso il cinema circolassero idee sgradite
al potere. Non si deve dimenticare, infatti, che durante il fascismo era
vietato ai giornali dare spazio a delitti, incidenti gravi o fatti di
sangue. Mussolini voleva diffondere nel mondo l'immagine di un paese
ordinato e felice, in cui regnavano il patriottismo e l'entusiasmo. Il
cinema dei "telefoni bianchi" fu il perfetto ambasciatore di
questa ideologia. Si chiamò così perché questi film erano ambientati in
un paese indefinito, in genere una vaga Ungheria, fra ceti sociali
benestanti che si muovevano in arredamenti pseudomoderni, dominati da
candidi apparecchi telefonici. Intendiamoci, non era un cinema totalmente
disprezzabile, poiché vi lavorarono registi abili e attori di grande
personalità come Vittorio De Sica. Tuttavia il senso complessivo
dell'operazione era sintetizzabile nell'invito a "non disturbare il
manovratore". La seconda vocazione, parzialmente contraddetta dalla
prima, era quella di "fare come in Russia"; costruire un cinema
molto motivato da un punto di vista ideologico che funzionasse da supporto
propagandistico al regime. I modelli indicati agli autori, soprattutto
dalla gerarchia nazista, erano quelli de "La corazzata Potëmkin"
(1925) di Sergej M. Ejzenštein e "La madre" (1926) di Vsevolod
Pudovkin. Un indirizzo che traspare dai film a più netto contenuto
propagandistico. Solo per citare qualche titolo: "Vecchia
guardia" (1935), apologia dello squadrismo italiano firmata da
Alessandro Blasetti, lo storico "Scipione l'Africano" (1937) di
Carmine Gallone, il retorico "Hitlerjunge Quex" (Il giovane
hitleriano Quex, 1933) di Hans Steinhoff e l'antisemita "Jud Süss"
(Süss l'ebreo, 1940) di Veit Harlan. In ogni caso, anche nella Germania
hitleriana, un posto di rilievo è riservato al cinema di consumo; in
primo luogo alle ricostruzioni storiche, in cui è più facile far
filtrare lo spirito nazionalistico e di superiorità razziale che sta
tanto a cuore al regime. Tuttavia ove i governi nazifascisti riuscirono ad
utilizzare al meglio il cinema fu nel campo del documentario e del
reportage. La lunga serie dei "Cinegiornali LUCE" (Unione per La
Cinematografia Educativa) italiani e i film di Leni Riefenstahl in
Germania rimangono un esempio di propaganda efficace, puntuale e ben
costruita. I film della regista nazista, in particolare, sono studiati
ancor oggi come modelli di cinema elaborato dal punto di vista estetico e
stilisticamente complesso. Dalle sequenze di opere come "Triumph des
Willens" (Il trionfo della volontà, 1935), dedicato al congresso
tenuto dal Partito Nazionalsocialista a Norimberga nel 1934, e
"Olympia" (1938), cronaca e apoteosi razzista delle Olimpiadi
berlinesi del 1936, è possibile cogliere citazioni del cinema sovietico,
ma anche influenze rinascimentali e neoclassiche. In un'epoca in cui la
comunicazione di massa era affidata alla radio e al cinema, il fare leva
sul circuito dei cinegiornali e dei grandi documentari, si rivelò una
scelta vincente, tanto che questi materiali costituiscono un documento
importantissimo per la conoscenza di ciò che accadde in quegli anni. A
questo punto è possibile avanzare una prima riflessione. Il cinema delle
dittature, preferendo più le opere d'intrattenimento che quelle
apertamente propagandistiche, tranne il settore dei documentari e
cinegiornali, appare più vicino al cinema hollywoodiano di quanto accada,
invece, a quello di paesi democratici come Francia e Gran Bretagna. Il
mercato francese è sempre stato molto appetibile per le altre
cinematografie. All'inizio degli anni trenta la MGM cercò di realizzare,
prima a Hollywood, poi a Berlino, film in doppia versione, una tedesca e
una francese. Questo nel tentativo di stabilire salde radici in questi
mercati. Un'operazione simile fu tentata dalla Paramount, che comprò il
centro produttivo di Joinville, per farne una testa di ponte destinata ad
inondare i mercati europei con film costruiti sul modello dei generi di
successo americani. Nello stesso tempo alcuni cineasti varcano l'oceano
con la speranza di rinnovare in America i successi ottenuti in patria.
Tutte queste operazioni, americane in Europa e d'emigrazione europea verso
gli Stati Uniti, non ebbero successo: unica eccezione il cantante - attore
Maurice Chevalier che ottenne un certo favore a Hollywood. Il fatto è
che, in quegli anni, il pubblico preferisce la produzione nazionale che si
lega, soprattutto, ad un solido filone, ad un tempo, poetico e realistico.
I film francesi di questo periodo, anche quanto imboccano il genere
commedia o portano sullo schermo opere teatrali di successo, contengono un
profumo di realtà e un solido aggancio alla situazione del paese. E' un
terreno fertile in cui germogliano, solo per fare alcuni nomi, i talenti
di: Jean Renoir, René Clair, Marcel Pagnol, Julien Duvivier, Marcel
Carné. Fra questi un ruolo di primo piano lo assumono Marcel Carné e
Jean Renoir. Al primo dobbiamo l'invenzione di quel geniale attore -
personaggio che è Jean Gabin. Un eroe dimesso e solitario, braccato dagli
uomini e condannato dal destino, fedele ad un suo personale codice, vero
raggio di luce morale in periferie immerse nel grigiore e nella povertà.
Film come "Quai des Brumes" (Porto delle nebbie, 1938) e
"Le Jour se Lève" (Alba tragica, 1939) non sono solo il
manifesto di un modo di fare cinema, il cosiddetto "realismo
poetico", ma il legame fra la maniera di raccontare e il sentire
profondo di un popolo. Sono storie destinate a diventare universali
proprio perché, come quelle americane, nate da una cultura specifica. Il
caso di Jean Renoir è ancora più indicativo. Il suo cinema, di forte
impronta progressista, non disdegna la propaganda politica aperta, come
nel caso de "La Masillaise" (La marsigliese, 1937), una
rivisitazione in chiave popolare della Rivoluzione Francese, la cui
produzione iniziò con una sottoscrizione della Confederazione Generale
del Lavoro (CGT), e "La Vie Est à Nous" (La vita è nostra,
1936), un collage di tre episodi finanziato da Partito Comunista Francese.
Tuttavia ove si coglie meglio lo spirito di quest'autore e del clima
sociale e politico di quegli anni, il cosiddetto periodo del Fronte
Popolare (1934 - 38), è in film come "Le Crime de Monsieur Lange"
(Il delitto del Signor Lange, 1935), "La Grande Illusion" (La
grande illusione, 1937) e "La Règle du Jeu" (La regola del
gioco, 1939). In questo modo si disegna un cinema saldamente legato ad un
paesaggio umano e ad un catalogo d'idee tipiche di un'epoca e di una
nazione. Non è un caso se, divisa la Francia in due a seguito
dell'occupazione nazista, sarà proprio la cinematografia della
"Repubblica di Vichy", abbondantemente finanziata dai tedeschi,
a ripresentare i film di "genere". Ritroviamo in ciò la
conferma di quanto notato a proposito del cinema dei regimi fascisti. Il
gusto per il prodotto di confezione e d'intrattenimento di stampo
hollywoodiano appartiene più a questi che non alle democrazie. Per quanto
riguarda la situazione inglese le cose vanno in modo abbastanza diverso.
Occorre partire da una premessa: per comunanza di lingua e mercato, quella
britannica si presenta, per buona parte della sua storia, come una sorta
d'appendice della cinematografia americana. In primo luogo vi è un
continuo flusso migratorio da Londra verso la California, flusso che hai
suoi casi più clamorosi in artisti come Charles Chaplin e Alfred
Hitchcock, ma che riguarda centinaia di attori e registi. Un secondo dato
mette in campo il ruolo dei capitali americani nello sviluppo e nella
sopravvivenza del cinema inglese. Ieri e oggi moltissimi film, formalmente
britannici sono, invece, produzioni "esterne" (runaway) delle
major hollywoodiane. Un terzo elemento riguarda la vocazione del cinema
britannico ad attingere alla grande letteratura anglosassone: William
Shakespeare, ma anche Jene Austen, Charles Dickens, Oscar Wilde, e, in
tempi più recenti, John Osborne, Irvin Welsh, Joe Orton, …. Partendo da
questo quadro verrebbe quasi da pensare che l'apporto inglese al cinema si
riduca a un pregevole perfezionismo professionale, a una cura minuziosa
dei dettagli e della recitazione. Così non è, infatti, anche la
cinematografia britannica presenta un'indicativa vocazione al realismo.
L'intera produzione della società Ealing, ad esempio, è segnata da
questo spirito. Il punto più alto di questa vocazione si ritrova nella
famosa "scuola inglese del documentario", che prende le mosse da
John Grierson il cui lavoro di regista e, soprattutto, di produttore e
organizzatore, innesca un nuovo spirito nel cinema britannico. La sua è
una posizione teorica contraria al lavoro negli studios e alla politica
dei "generi". L'obiettivo è fissato, invece, negli scenari
reali e nella trasformazione delle immagini documentarie in linguaggio
poetico. Un modo di pensare che influenzerà la parte migliore del cinema
britannico, incrinandone l'accademismo, il gusto letterario e, soprattutto
la soggezione nei confronti di Hollywood. Questo il quadro, molto
sommario, del cinema dell'Europa Occidentale fra la nascita del sonoro e
la seconda guerra mondiale, un panorama tutt'altro che lineare ove le
assonanze culturali non collimano per niente con quelle politiche.
Umberto Rossi |